Dieci anni fa: la strage della Thyssenkrupp di Torino

In questo 6 dicembre del 2017 a Torino, tre lavoratori sono rimasti ustionati a causa di un’improvvisa esplosione in una fabbrica chimica, la Vaber. Il giorno dopo, un operaio edile moriva cadendo dal tetto di uno stabile in via di ristrutturazione in pieno centro cittadino. Proprio in quei giorni di dieci anni fa, esattamente nella notte tra il 5 ed il 6 dicembre del 2007, sette operai della Thyssenkrupp di Torino morivano in un incendio verificatosi alla linea 5 dell’acciaieria.

Nulla è cambiato nel paese, se non in peggio, dopo quel tragico evento. Nei primi otto mesi di quest’anno, infatti, ii dati Inail hanno registrato 421.969 infortuni sul lavoro (+1,2% rispetto allo stesso periodo del 2016) e, dato ancor più allarmante, 682 infortuni mortali (+4,7%). E si tratta solo di quelli denunciati. Si continua dunque a morire sul lavoro e di lavoro. Le ragioni sono evidenti. La crisi ha indotto i padroni a ridurre i costi tagliando le spese per la sicurezza, i lavoratori sono sempre più sottoposti al ricatto della disoccupazione e, dunque, dispongono di minor forza rivendicativa. Se vuoi conservare il posto devi giocoforza essere disposto ad accettare condizioni di lavoro rischiose. La forza lavoro è sempre più anziana. Non a caso, il 20% delle morti nei cantieri edili riguarda i lavoratori ultrasessantenni. E questo grazie alle leggi che negli ultimi vent’anni hanno aumentato progressivamente l’età pensionabile.

Riteniamo opportuno pubblicare, qui di seguito, un articolo uscito su L’Internazionale dopo la manifestazione del 10 dicembre 2007, svoltasi a Torino a quattro giorni dal rogo che uccise i sette operai della Thyssen. In esso si mettono in luce alcuni aspetti tra i più significativi della ristrutturazione dell’acciaieria, allora Teksid Acciai, a partire dagli anni Settanta e le sue ricadute drammatiche, e spesso tragiche, sulle condizioni di lavoro degli operai di quella fabbrica. Leggendo l’articolo si può riscontrare come le cause degli infortuni sul lavoro di allora siano le stesse di oggi. Dietro ad ogni infortunio, dietro ad ogni morte bianca in una fabbrica, in un cantiere o in un campo agricolo c’è sempre e solo lo sfruttamento capitalistico.

Si esprimeva anche la consapevolezza che i responsabili di quelle morti avrebbero tentato in qualche modo di farla franca. «Certamente, spenti i riflettori e finito il clamore provocato dalla tragedia, per i padroni sarà meno difficile tentare di sfuggire alle maglie della giustizia. Si tratta pur sempre della “loro” giustizia. Di sicuro ai padroni fanno meno paura i processi in tribunale delle lotte nelle fabbriche». Ed è proprio ciò che è accaduto. I due manager della Thyssen, sebbene siano stati condannati per omicidio colposo plurimo, vivono tranquillamente in Germania anziché scontare la pena in carcere.

La testimonianza di un lavoratore della Teksid Acciai

Il rogo della ThyssenKrupp e la strage dei sette operai della linea 5 mi hanno fatto tornare in mente un altro tragico fatto accaduto 29 anni prima nella stessa fabbrica.

Allora si chiamava Teksid Acciai, ex Fiat Ferriere, lo storico complesso siderurgico torinese che negli anni settanta non produceva più ferro per le auto della Fiat, ma acciaio speciale destinato al mercato internazionale. Due acciaierie tecnologicamente all’avanguardia, più di 13.000 lavoratori.

Nel 1981, a pochi mesi dalla lotta dei 35 giorni della Fiat, giunse la crisi irreversibile: cassa integrazione a zero ore senza ritorno per quasi tutti i lavoratori, chiusura dei quattro forni e drastico ridimensionamento degli altri impianti. La dismissione della Teksid Acciai proseguì negli anni, lenta ma inesorabile, accompagnata dalla cessione dello stabilimento, pezzo dopo pezzo, alla siderurgia a partecipazione statale. Per anni si era fatto credere agli operai, anche con la complicità delle direzioni sindacali, che la riconversione era una scelta obbligata di progresso e la diversificazione della produzione un passo necessario per assicurare lo sviluppo di un’azienda che, a suo dire, non temeva di competere con i colossi siderurgici tedeschi, da sempre detentori del mercato mondiale dell’acciaio speciale. Poi, con la dichiarazione dello stato di crisi, la cassa integrazione, la chiusura degli impianti, il vero disegno della Fiat fu chiaro a tutti: disfarsi di un settore divenuto troppo costoso in un periodo di crisi strutturale dell’auto. I capitali da investire erano troppi e i tempi di ammortamento degli investimenti troppo lunghi. Ancora una volta i padroni decidevano di tenersi gli utili accollando le perdite al pubblico. I pochi laminatoi a freddo e i 200 lavoratori della Thyssen, oggi ormai chiusa, rappresentavano nel 2007 il risultato finale di quella gigantesca e nefasta ristrutturazione. Anzi no, l’ultimo vero risultato sono stati i sette operai uccisi dopo aver lavorato da 12 a 16 ore consecutive per garantire la produzione di una fabbrica che avrebbe dovuto chiudere dopo pochi mesi.

Un odioso filo rosso lega la Thyssen alla Teksid Acciai: produrre al massimo prima di chiudere, gli operai dell’una e dell’altra vittime sacrificali del profitto a tutti i costi.

Il 6 dicembre 2007 le fiamme dell’incendio alla linea 5 della Thyssen avvolgevano mortalmente sette lavoratori. Le cause: turni massacranti, misure di sicurezza più che inadeguate, assenza di manutenzione degli impianti. Il 31 agosto 1978 una gigantesca colata di acciaio fuso investiva sei operai della Acciaieria 2 della Teksid Acciai, uccidendone due. Le cause: insufficienti misure di protezione nella zona della colata, anomalo ribollimento dell’acciaio causato dal trattamento non idoneo del materiale durante il processo di fusione, e, soprattutto, la decisione criminale dell’azienda di murare lo “stramazzo” della siviera per aumentarne la portata (lo “stramazzo” è una sorta di beccuccio, un’apertura nella parete della siviera, cioè il contenitore della colata, allo scopo di evitarne l’eccessivo riempimento).

Teksid Acciai 31 agosto 1978: 170 tonnellate di colata anziché 150, morire per fare 20 tonnellate in più. ThyssenKrupp 6 dicembre 2007: turni di 16 ore invece di 8, morire per lavorare di più, per produrre di più.

I dirigenti Thyssen, in un documento trovato dagli inquirenti nelle perquisizioni, addossano le colpe del disastro agli operai della linea 5, accusandoli di distrazione sul lavoro e preannunciando provvedimenti disciplinari nei confronti del giovane sopravvissuto, definiscono malati di protagonismo i lavoratori intervenuti in televisione per denunciare le responsabilità dell’azienda nella tragedia. Questi vergognosi personaggi hanno persino tentato, il giorno dopo la strage, di far sostituire gli estintori difettosi. I manager della Thyssen indagati per omicidio e disastro colposi, nella speranza di farla franca, faranno di tutto per allungare i tempi del processo, magari contando su qualche indulto o sulla prescrizione. Non sarei stupito se un giorno venissimo a sapere che costoro hanno provato a tacitare i familiari delle vittime offrendo loro del denaro al fine di evitare che si costituissero parte civile nel processo.

Quel 31 agosto 1978, i dirigenti della Teksid Acciai non riuscirono, per una volta, a “far morire fuori dalla fabbrica” i due operai investiti dalla colata (prassi seguita dalla Fiat al fine di evitare il sequestro degli impianti), solo perché i compagni di lavoro e i delegati del consiglio di fabbrica impedirono lo scempio facendo muro intorno ai resti delle vittime. Si parlò di offerte di denaro ai familiari, approfittando del loro stato di necessità, per evitare che si costituissero parte civile nella causa. Sei dirigenti Teksid furono accusati di violazione alle norme antinfortunistiche, ma il processo si svolse solo parecchi anni dopo e, visto che nessuno ne parlò, è legittimo pensare che tutto si concluse in condanne insignificanti o addirittura in un nulla di fatto per intervenuta prescrizione.

Succederà la stessa cosa ai dirigenti della Thyssen? La gravità dell’accaduto ha provocato un forte sdegno nel paese, rabbia e dolore tra i lavoratori, stanchi di vedere allungarsi la scia di omicidi bianchi, ma anche molte lacrime di coccodrillo e tanto cordoglio ipocrita del mondo politico e padronale. Certamente, spenti i riflettori e finito il clamore provocato dalla tragedia, per i padroni sarà meno difficile tentare di sfuggire alle maglie della giustizia. Si tratta pur sempre della “loro” giustizia. Di sicuro ai padroni fanno meno paura i processi in tribunale delle lotte nelle fabbriche.

Camminavo a fianco dei lavoratori della Thyssen al corteo che il 10 dicembre ha attraversato silenzioso il centro di Torino. Quel giorno c’era lo sciopero dei metalmeccanici per il contratto, ma la manifestazione era ovviamente diventata l’occasione per esprimere la forte solidarietà operaia per il recente tragico evento. Ventinove anni prima avevo partecipato ad un altro corteo, quello degli operai della Teksid diretto verso la palazzina della direzione subito dopo la morte dei due compagni. Il dolore e la rabbia erano gli stessi. Anche quella volta, il silenzio carico di tensione veniva lacerato, a tratti, dallo stesso grido: “Assassini!”.

M.I – Dicembre 2007