La bancarotta storica del capitalismo

Il 3 e il 4 marzo 2012, a Livorno, si è svolta la Conferenza di organizzazione annuale del Circolo operaio comunista, “L’Interna-zionale”. Quello che segue è il testo del documento politico che, in forma di relazione, è stato letto nel corso della seduta pubblica. Essendo trascorse varie settimane dalla Conferenza, si è deciso di apportare qualche lieve modifica. Il significato e la struttura del testo sono gli stessi ma abbiamo sostituito qualche dato e qualche citazione utilizzando fonti più recenti.

Lo scorso anno era iniziato con la “Primavera araba”. Alla base di quella crisi politico-sociale c’era l’enorme rincaro del grano, del riso, di tutti i prodotti agricoli di base che sono ormai divenuti preda della speculazione internazionale. Né in Tunisia, né in Egitto, né in nessun altro dei paesi arabi si è ancora concluso questo ciclo.

Tratteremo dei problemi della politica mondiale in un’altra occasione, qui ci basta mettere in evidenza due aspetti generali. In primo luogo la stretta dipendenza fra l’approfondirsi e il prolungarsi della crisi economica e le crisi delle forme e delle istituzioni politiche. In secondo luogo come queste crisi politiche si siano estese ad un numero sempre maggiore di paesi, pure nella varietà di forme che hanno preso o prenderanno: dalla guerra civile in Siria, all’instabilità greca, fino allo sgretolamento del sistema dei partiti in Italia e alle grandi mobilitazioni di massa in Spagna, Grecia e nel resto d’Europa.

Economia mondiale: le nebbie dell’incertezza

All’inizio dell’anno, la Banca Mondiale ha presentato il suo rapporto: Le prospettive dell’economia globale con una copertina in cui si vede un vascello avvolto dalla nebbia in un mare immobile per la bonaccia. L’immagine è sufficientemente chiara e il titolo, Incertezze e vulnerabilità, toglie ogni dubbio. Altrettanto chiaro, l’editoriale di Francesco Guerrera, caporedattore finanziario del Wall Steet Journal, pubblicato da La Stampa lo scorso 16 gennaio: “Nessuno sa cosa succederà nel mondo del denaro dopo un 2011 di pathos, passione e paura. Chi dice di saperlo – gli analisti delle banche e pubblicazioni di mezzo mondo hanno creato una piccola industria delle previsioni che sforna verdetti ogni gennaio – mente”.

Il 2011 è stato effettivamente l’anno in cui della recrudescenza della crisi finanziaria nella sua forma particolare di crisi del debito sovrano.

Grazie a una recente indagine dell’agenzia di stampa americana Bloomberg, è venuta alla luce l’entità degli aiuti di stato che hanno sostenuto il sistema bancario americano dopo il fallimento della Lehman Brothers. Si tratta di una cifra spaventosa: 7.700 miliardi di dollari. Una “iniezione di liquidità” che la banca centrale americana ha fornito alle grandi banche a tassi prossimi allo zero.

Una montagna di soldi che rappresenta più o meno la metà del Pil americano e 10 volte il fondo di salvataggio per le banche voluto dall’amministrazione Bush. Commenta il Sole 24 Ore: “Soldi che hanno mascherato un salvataggio alla greca ma molto più costoso, a carico degli ignari contribuenti americani e hanno procurato agli istituti di credito americani plusvalenze extra per 13 miliardi di dollari”. Un meccanismo che ha continuato a funzionare, più o meno nello stesso modo, in tutto il mondo e che ha contribuito a trasformare in una voragine il debito pubblico di tutti i paesi oltre che ad imprimere una ulteriore accelerazione alla finanziarizzazione dell’economia.

Prosegue la concentrazione del capitalismo

Nel corso delle varie tappe che dal 2007 ad oggi hanno segnato l’evolversi della crisi, è aumentata la concentrazione finanziaria su scala mondiale. Seguendo una regola che nel capitalismo non ammette deroghe, la morte di milioni di imprese si traduce nel rafforzamento di pochi grandi gruppi. Secondo una ricerca dell’Istituto Federale di Tecnologia di Losanna, 1318 grandi imprese detengono la maggioranza dei titoli di proprietà delle principali imprese del mondo, le azioni blue chips. In questo gruppo ristretto di superimprese globali, un nucleo ancora più piccolo, 147 multinazionali, controlla il 40% della ricchezza totale. La maggioranza di esse sono banche.

Secondo altre fonti, le prime dieci banche realizzano il 77% delle transazioni sui mercati monetari.

L’espressione neutra “mercati finanziari”, così spesso utilizzata per giustificare ogni giro di ruota che stritola economicamente decine di milioni di vite, nasconde il potere immenso di un centinaio o poco più di consigli d’amministrazione sull’economia del pianeta. Quella che nel Manifesto di Marx era soltanto una geniale anticipazione, “l’interdipendenza universale delle nazioni”, è oggi una realtà tanto solida come mai era stata. La divisione internazionale del lavoro si organizza oramai principalmente attorno a questi conglomerati. In un suo saggio pubblicato nel 2010, l’economista coreano Ha-Joon Chang scrive: “Una porzione compresa tra un terzo e la metà del commercio internazionale, a seconda delle stime, è fatta di trasferimenti tra differenti unità all’interno di società transnazionali”. Le grandi multinazionali conservano una base nazionale (nel caso americano anche un grande mercato nazionale) e si rapportano ai rispettivi stati e governi più o meno come padroni nei confronti dei servitori. Presenti in un gran numero di paesi, la loro strategia integra in un unico processo di sviluppo le varie caratteristiche nazionali che possono costituire un vantaggio: la vicinanza di fonti di materie prime, di infrastrutture, la qualità della manodopera e il suo costo, la disponibilità del credito, le agevolazioni fiscali…

La trasformazione di paesi come la Cina o il Brasile in “officine del mondo” e la diminuzione relativa del peso dell’industria nei paesi di più vecchio capitalismo avviene in questo quadro.

L’Unione europea, apparentemente, dovrebbe trovare in questa spinta alla concentrazione dei capitali, un punto di appoggio per la progressiva integrazione politica. In realtà questo processo economico si compie sempre nel segno della competizione fra grandi gruppi capitalistici, tuttora basati nazionalmente, che hanno bisogno di propri stati, di proprie diplomazie e di propri governi per tutelare i propri interessi di fronte ai grandi gruppi concorrenti. Non è un caso che lo scenario politico europeo sia caratterizzato da continue professioni di europeismo che contrastano con le continue tensioni fra stati sul terreno economico. La stessa sopravvivenza dell’Euro è messa in causa sempre più di frequente non più solo da personaggi secondari e stravaganti, ma da leader politici e da esponenti del mondo imprenditoriale e finanziario.

È sempre il solito vecchio imperialismo

Altre volte abbiamo avuto occasione di sottolineare che non ci troviamo di fronte a fenomeni qualitativamente nuovi ma allo sviluppo estremo di caratteristiche e tendenze già individuate dal pensiero marxista di inizi ‘900, da Hilferding, da Bukharin, da Lenin. In particolare Lenin richiamava la necessità di comprendere il fenomeno – allora veramente nuovo – dell’imperialismo. Con questo termine si intendeva una fase della storia del capitalismo in cui i tratti monopolistici soppiantano definitivamente quelli della libera concorrenza e l’economia finanziaria supera per importanza quella propriamente produttiva. Lenin insisteva in modo particolare sul carattere ineluttabile di questa evoluzione del capitalismo.

L’imperialismo non è una politica dei governi capitalistici o di alcuni settori dell’alta finanza, l’imperialismo è il logico sbocco delle tendenze già presenti nel capitalismo fino dalla sua nascita. Da qui l’opposizione a tutte quelle scuole e quelle correnti politiche riformiste che illudevano il movimento operaio di poter “spostare” il corso dell’evoluzione capitalistica dall’alveo dell’imperialismo a quello, ormai definitivamente prosciugato della libera concorrenza oppure di sottomettere il capitalismo alla volontà di uno stato “democratico” che, attraverso una serie di leggi e norme, ne avrebbe appoggiato gli elementi più progressisti, legati alla produzione industriale, a scapito degli speculatori finanziari.

Non è un semplice esercizio culturale riferirsi oggi a queste polemiche e alle battaglie politiche e teoriche di Lenin. Oggi infatti fioriscono correnti e movimenti che riprendono più o meno le stesse illusioni di novanta anni fa. Le ritroviamo in tutti i sostenitori della lotta contro l’ultraliberismo. O nei sostenitori della decrescita economica. Spesso troviamo in questo composito schieramento l’idealizzazione del periodo del boom post-bellico, nel quale lo stato avrebbe giocato un ruolo dirigente a vantaggio di tutta la collettività. È un po’ come scambiare causa ed effetto. Nell’immediato dopo-guerra lo stato, non solo in Italia, fu costretto a sobbarcarsi tutte le spese di ricostruzione che nessun singolo capitalista avrebbe avuto i mezzi per assumersi. Dagli acquedotti alle strade, dai porti all’energia elettrica a interi settori industriali di base furono rimessi in piedi con le finanze pubbliche e a costo di uno sfruttamento durissimo degli operai. I capitalisti si fecero preparare tutte le condizioni per assicurarsi i profitti nel modo meno rischioso possibile. Il capitalismo di stato fu in gran parte in Italia un’eredità del fascismo, ma venne ulteriormente ampliato e adattato alle esigenze di un’economia capitalistica che si avviava verso un insperato periodo di vacche grasse.

In ogni caso, era allora ed è oggi lo stato del capitalismo e dei capitalisti. Basterebbe ricordare i morti operai che puntualmente seguivano agli scioperi e alle manifestazioni di piazza, grazie all’intervento della “celere”, oppure i sindacalisti che in Sicilia venivano fatti fuori impunemente dalla mafia, senza che il governo democristiano muovesse un dito. Lo stato-padrone con gli operai non era certo più “democratico” di quello di oggi.

Disoccupazione, povertà, bassi salari

I diversi centri di analisi economica ci spiegano che se è vero che l’Italia è in recessione, l’andamento complessivo dell’economia mondiale mostra oggi più luci che ombre. Si tratta di fare qualche sacrificio, ma è per agganciarsi a una ripresa già in atto negli Stati Uniti e anche, per quanto riguarda l’Europa, in Germania. Ma anche in questi due paesi le cose non vanno poi così bene.

Nel corso del 2011 2,6 milioni di americani sono caduti nella fascia di povertà portando così il numero totale di poveri a 46,2 milioni, il numero più alto da quando, nel 1959, il Census Bureau ha iniziato questo genere di indagini sociali.

I più giovani pagano un prezzo alto al “sogno americano”: dal 2000 al 2010 il numero dei bambini considerati poveri è aumentato del 25%. Tre quarti di questi bambini ha almeno un genitore che lavora ma il cui salario non è sufficiente a portare la famiglia fuori dalla povertà. Detroit detiene in America il poco invidiabile primato della povertà infantile. I giovani lavoratori, in età tra i 15 e i 24 anni, hanno visto i propri salari ridotti in media del 9%. I giovani fra i 25 e i 34 anni risultano la fascia di popolazione più colpita: il 45% di loro è considerato povero.

Nella “locomotiva tedesca”, secondo l’Ufficio federale di statistica, il 15,6% della popolazione è a rischio povertà. Una rivista tedesca, specializzata in medicina del lavoro, scrive: “La proporzione degli ‘working poors’ è in aumento in Germania. I problemi correlati alla povertà si manifestano a causa di un più basso standard di nutrizione e di abitazione, restrizioni economiche, cattive condizioni di lavoro, comportamenti ad alto rischio e mancanza di accesso ai servizi sanitari”.

In sostanza, gli esempi dei paesi che si dice siano ormai fuori dalla crisi ci mostra che non c’è nessun rapporto automatico fra ripresa economica e miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e della maggioranza della popolazione.

La recessione italiana e il governo dei “tecnici”

Detto questo, l’economia italiana è comunque in piena recessione. Il 2011 è stato, come abbiamo visto, l’anno dell’aggravarsi della crisi finanziaria, che ha subito un’impennata eclatante alla fine di giugno, e poi ancora per tutto il mese di agosto. A partire da agosto, il proletariato italiano ha dovuto fare i conti con un neologismo prima sconosciuto, e poi sempre più in voga sulla stampa e sulla bocca dei politici di qualsiasi tendenza: la parola spread, cioè la differenza tra il tasso di rendimento dei titoli pubblici italiani e quelli tedeschi. Un martellamento quotidiano ci ha assaliti: lo spread aumenta, lo spread è ai massimi storici, la febbre dello spread è altissima, è indispensabile diminuire lo spread, etc.etc. Con la magica parola spread e la pressione mediatica quotidiana che l’ha accompagnata, si sono predisposte (e si stanno ancora mettendo a punto) quelle che tutti presentano come salutari “riforme” per salvare il Paese, le future generazioni, etc.

Da luglio a fine anno si è trattato di un crescendo evidente, che ha effettivamente preparato un urto poderoso sulla classe operaia, senza che questa – nonostante si siano verificati molti esempi di lotte isolate – fosse capace di organizzare una resistenza sufficiente. Come ha chiosato il premier Monti nella sua trasferta americana di febbraio: “Solo tre ore di sciopero, dopo la riforma delle pensioni, significa che i nostri sindacati sono maturi, come l’opinione pubblica italiana” (Corriere della Sera, 10.2.11. E d’altra parte “Se gli italiani andranno avanti con questo senso di responsabilità e con questa maturità mi permetto di sperare in uno spread zero” (Corriere della Sera, 15.2.12).

Per ottenere questo risultato, la borghesia italiana ha sacrificato senza rimpianti il governo Berlusconi, ormai inutilizzabile, sostituendolo appunto con i cosiddetti “tecnici”. Usando il trucco da illusionisti di un governo neutrale, ha fatto passare senza colpo ferire la riforma delle pensioni, che ha allungato la vita lavorativa e ha compresso i rendimenti. Al momento sta mettendo mano alla riforma del mercato del lavoro, e probabilmente – tra le altre cose – cercherà di arraffare lo “scalpo” dell’art. 18, operazione che dieci anni fa non riuscì al governo Berlusconi.

Nel frattempo, a causa della riforma delle pensioni, si è creata una massa di cosiddetti “esodati” senza salario e senza pensione. Si tratta di quei lavoratori che, in base al precedente regime previdenziale, avevano sottoscritto accordi di prepensionamento, pressati dalle aziende che volevano diminuire gli organici. Ora si trovano fuori dalle aziende, in regime di mobilità, ma troppo “giovani” per andare in pensione. Solo per una parte di questi lavoratori è stata calcolata la copertura finanziaria per garantirne i diritti.. Con un tipico pasticcio all’italiana, la “tecnica” Fornero si è dimenticata di almeno duecentomila altri lavoratori nelle stesse condizioni. Ma, comunque vada a finire, è chiaro che si sono poste tutte le premesse per rendere ancora più selvaggio il mercato del lavoro. Si sta infatti costituendo un nuovo settore debole: quello dei lavoratori sopra i cinquant’anni, che potranno costituire una ulteriore quota di disoccupati senza la speranza di ritrovare un lavoro decente.

La condizione dei lavoratori

In generale, la situazione della classe operaia ha subito un arretramento drammatico, anche rispetto agli anni precedenti. Secondo il rapporto Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, se a livello di Unione un abitante su quattro è a rischio povertà (e otto su cento vivono già nella miseria), gli italiani sono nella media, anzi sono leggermente sopra, con un 24,5% su una media europea del 23,4. L’Italia è al terzo posto per il rischio di povertà, dopo la Grecia e il Portogallo. Questi dati, usciti a febbraio, si riferiscono al 2010, e quindi probabilmente sono più ottimistici rispetto alla realtà attuale. L’ISTAT, che ha dati più aggiornati, conferma questa tendenza, affermando inoltre che ben 8,3 milioni di individui in Italia si trovano in condizioni di povertà, cioè il 13,8% della popolazione residente. Per finire, il 10% delle famiglie più ricche si appropria del 45,9% dell’intera ricchezza netta del paese, in crescita – manco a dirlo – rispetto al 44,3% del 2008.

Anche il rapporto della Banca d’Italia – riferito sempre al 2010 – conferma questa tendenza. Il 27,7% delle famiglie italiane ha debiti, e il 29,8% reputa le proprie entrate insufficienti a coprire le spese. Rispetto alle rilevazioni degli anni precedenti – rileva Bankitalia – “emerge una tendenza all’aumento dei giudizi di difficoltà”. Questi dati sono confermati dall’ufficio studi della CGIA di Mestre, che è un po’ più aggiornato, e secondo il quale dal settembre 2008 allo stesso mese del 2011 l’indebitamento medio delle famiglie è aumentato del 36,4% in termini assoluti, mentre l’importo medio per ciascun nucleo è intorno ai 20.000 euro. Molto spesso si apre un debito per pagarne uno pregresso, entrando in un circolo senza soluzione. Secondo Eurispes, quasi la metà delle famiglie italiane è costretta a intaccare i risparmi per arrivare a fine mese, mentre oltre il 70% riferisce di non riuscire a risparmiare, un quarto ha difficoltà a pagare la rata del mutuo, quasi un quinto a pagare l’affitto, l’8,9% si è trovato in arretrato con il pagamento delle bollette.

In compenso, aumenta anche lo “spread”, per così dire, tra i redditi più bassi e i redditi più elevati. Nel 1980 l’1% più ricco degli italiani guadagnava il 7% del totale, già nel 2008 la sua quota era passata al 10%: inutile aggiungere che la tendenza va in questa direzione anche negli anni successivi. Così come non è difficile immaginare, e le rilevazioni confermano, anche un dato già noto: negli ultimi trent’anni la quota dei redditi da lavoro autonomo sul totale della ricchezza è aumentata del 10%; di pari passo è diminuita quella da lavoro dipendente. Il rapporto ISTAT conferma il dato anche in termini assoluti. A dicembre la paga oraria ha avuto un incremento dell’1,4% su base annua, mentre i prezzi sono saliti del 3,3%: il divario più alto da agosto 1995. Solo che nell’agosto del ’95 la prospettiva era quella di una graduale ripresa, oggi l’Italia è considerata ufficialmente in recessione.

A dicembre 2011 risultavano in attesa di rinnovo 30 contratti di lavoro, di cui 16 appartenenti alla Pubblica Amministrazione, che prevede il blocco fino al 2014: in pratica, il 31,4% dei lavoratori era – ed è – in attesa dei rinnovi contrattuali. Evidentemente dopo l’abolizione della scala mobile, ormai vent’anni fa, i lavoratori non recuperano più nemmeno l’inflazione. Infatti, nella classifica elaborata dall’Ocse sui 34 Paesi più industrializzati, e pubblicata a fine dicembre, l’Italia conferma il dato degli anni precedenti, collocandosi al 22° posto su 34 nella classifica dei salari netti, e aggiudicandosi però ben il 5° posto per il livello di tassazione.

La stampa borghese ha la spudoratezza di usare il dato dei bassi salari come argomento per intensificare lo sfruttamento degli operai. Sostenendo che solo un incremento della produttività industriale consentirebbe un aumento generale dei salari, i vari portavoce del capitale si “dimenticano” il piccolo dettaglio delle dimensioni medie delle imprese italiane. Infatti con una media di nemmeno 4 addetti per azienda è ben difficile immaginare una svolta nella capacità produttiva dell’industria.

La produttività del lavoro, calcolata con il criterio del valore aggiunto per ora lavorata, non cresce o cresce pochissimo in Italia – non certo per colpa degli operai – dal 1995. Secondo l’Ocse, in quindici anni è aumentata di appena il 2%. Per avere un termine di paragone, in Germania è aumentata del 25%!

È abbastanza chiaro che, potendo contare su di un blocco dei salari per un ventennio, “cortesemente” garantito dalle grandi centrali sindacali, il capitalismo italiano ha cercato i suoi spazi nel mercato mondiale con l’esportazione di prodotti di basso contenuto tecnologico e ad alta intensità di lavoro.

Il lavoro sotto attacco

Per il terzo anno di fila, la cassa integrazione è a livelli record. Dati Cgil parlano di 1 miliardo di ore e quasi 10.000 aziende interessate. Ma mettono anche l’accento sulla stagnazione dell’occupazione nelle grandi imprese a partire da settembre, accompagnata in ogni caso da una contestuale diminuzione della cassa integrazione. Questo conferma che una parte dei lavoratori, quando finisce la cassa integrazione, non rientra in fabbrica e rimane senza lavoro.

A dicembre, secondo l’indagine ISTAT, il numero dei disoccupati in Italia ha toccato 2.243.000 unità, in aumento dello 0,9% su novembre, e del 10,9% rispetto a dicembre 2010. E’ il dato peggiore da quando, nel 2004, si sono rilevate le serie storiche mensili. Il tasso di disoccupazione è risultato all’8,9%, in rialzo di 0,8 punti su dicembre 2010. Ma è il tasso di disoccupazione giovanile quello che galoppa di più: a dicembre era al 31%, in aumento di 3 punti rispetto a un anno prima; se si confronta il dato con il 2007, quando oscillava tra il 19 e il 21%, si ha un’idea molto chiara del tributo che le nuove generazioni pagano alla crisi del capitalismo.

Se poi si guarda al genere di lavoro riservato ai giovani, si ha un’idea chiara sul futuro che il capitalismo stesso intenderebbe riservare a tutti quanti: i lavoratori precari nella fascia tra i 15 e i 24 anni sono il 46,7% del totale, praticamente la metà. Tanto per avere un’idea, nella fascia tra i 35 e i 54 anni i precari sono l’8,3%, in quella oltre i 55 sono il 6,3%. La stampa borghese si strappa i capelli sulla “maledizione” dei giovani. In realtà, si tratta semplicemente delle nuove forme di lavoro (flessibile!) che vengono offerte a chi si affaccia per la prima volta sul mercato del lavoro: è questo il nuovo lavoro, così si vorrebbe il lavoro dipendente.

Una politica indipendente della classe lavoratrice

Le conseguenze sociali della crisi si sono fatte così evidenti che, in qualche modo, gli stessi portavoce del gran capitale si sono dati la pena, ultimamente, di sottolineare la necessità di qualche forma di reddito minimo garantito per non alimentare il temuto conflitto sociale. Il problema è che loro vedono questa o altre “concessioni”, non come il doveroso soddisfacimento di un diritto umano da parte della comunità, ma come un qualcosa che deve risultare dal drenaggio di nuove risorse. Così, è soltanto dopo che il governo avrà debellato l’evasione fiscale e, soprattutto, dopo che si sarà incrementata la produttività generale attraverso uno sfruttamento ancora più intenso e la totale soppressione di ogni tutela dei lavoratori, solo allora, forse, ci saranno le risorse per non far crepare di fame qualche milione di disoccupati. Tutto sta nel vedere se questi saranno disposti ad aspettare tanto!

Abbiamo detto tante volte che la classe lavoratrice potrà vedere dei miglioramenti nel proprio tenore di vita solo se trova la capacità, la fiducia e le energie per ribaltare i rapporti di forza con il padronato. È sempre più chiaro che occorre una risposta collettiva ed è sempre più chiaro che affidare le proprie sorti ai partiti e alle loro formule politiche e governative è un suicidio. Tanto il grande capitale, quanto le forze politiche e gli intellettuali che lo sostengono hanno fatto di tutto per cancellare la memoria storica del movimento operaio. da questa storia, tuttavia, vengono lezioni fondamentali. Una di queste, forse la più importante, è che nessun grande avanzamento della condizione dei lavoratori e nessun grande argine contro il loro peggioramento è stato ottenuto senza dure lotte dei lavoratori stessi, lotte che sono state condotte senza riguardo al colore del governo in carica.

L’inettitudine e il marciume dei partiti della cosiddetta seconda repubblica stanno disgustando un numero crescente di lavoratori. Non è un buon motivo per disinteressarsi di politica o per affidarsi a nuovi demagoghi. La classe lavoratrice, anzi, deve sviluppare una propria azione politica indipendente. Per farlo deve impadronirsi di nuovo delle proprie tradizioni di lotta politica e di organizzazione; deve sviluppare una propria visione critica dei rapporti sociali e non farsi sottomettere dai pregiudizi e dalle mode ideologiche dominanti. Certo che tutto questo non può avvenire dall’oggi al domani.

Bisogna intanto che si allarghi il numero di quelli che, nella classe lavoratrice, ritengono indispensabile una politica e un partito operaio indipendente e che si vogliono impegnare per realizzarli.

Indipendenza politica significa difendere un proprio programma e dei propri obiettivi. Questo, per un partito operaio vuol dire contrapporsi a tutte le correnti politiche che hanno nella difesa del profitto e dell’ordine capitalistico i punti cardine della propria azione sociale.

Ma la salvaguardia degli interessi collettivi e della vita stessa dei lavoratori sono troppo importanti perché si possa accettare di subordinarli alle compatibilità del capitalismo.

Contro il flagello della disoccupazione, bisogna rivendicare la graduale distribuzione dei carichi di lavoro fra occupati e disoccupati a parità di salario. Bisogna imporre il divieto dei licenziamenti. Se non si vuole che il diritto ad una vita dignitosa rimanga una frase vuota, bisogna che se ne garantiscano le condizioni economiche minime. Occorre che si istituisca un salario minimo vitale, definito da una commissione composta in maggioranza da delegati dei lavoratori, a cui si devono riferire tanto le pensioni quanto le indennità di disoccupazione. Bisogna che il tenore di vita minimo consentito dal salario non venga eroso dall’aumento dei prezzi e delle tariffe, quindi occorre che questo sia indicizzato al costo reale della vita.

Alle obbiezioni sulla possibilità economica di questi obiettivi, rispondiamo che nessuno può sapere quali siano queste possibilità fintanto che la contabilità delle grandi imprese e i grandi patrimoni mobili e immobili non saranno sottoposti a un controllo e a una verifica realmente democratiche. Questo può avvenire solamente attraverso organismi popolari ad elezione diretta, coadiuvati da esperti economici che possono essere in gran parte gli stessi impiegati delle banche o delle imprese.

Se tutto questo cozza con i diritti consolidati dei capitalisti e dei milionari che vivono di rendita, significa solo che questi diritti hanno fatto il loro tempo. Significa che il capitalismo è ormai soltanto un ostacolo al progresso sociale e al benessere collettivo.

La gravità della crisi evidenzia la bancarotta storica del capitalismo. La sua incapacità a garantire un futuro alle giovani generazioni e perfino i minimi livelli di civiltà che sembravano acquisiti nei paesi più sviluppati. La necessità di una diversa organizzazione sociale, basata sul possesso comune e sulla conduzione collettiva e organizzata dei mezzi di produzione, può essere comprensibile oggi più di ieri. La sua possibilità materiale sta nello stesso sviluppo dei mezzi di produzione già acquisito e accumulato, sta nell’insieme delle cognizioni tecniche e scientifiche di cui la società potrebbe già disporre.

Il comunismo è di nuovo all’ordine del giorno.