Salario minimo legale: una questione di rapporti di forza

 

Il progetto di legge sul salario minimo, presentato il luglio scorso dal PD e dal Movimento 5 Stelle, è stato svuotato di ogni contenuto concreto dagli emendamenti della maggioranza ed è stato trasformato in una delega al governo per una legge sulla retribuzione e la contrattazione collettiva dei lavoratori.

È da prevedere che se ne parlerà ancora, almeno fino alle elezioni per il parlamento europeo del prossimo giugno.

Ma, al di là delle sue disavventure parlamentari, la questione del salario minimo e quella salariale in tutti i suoi aspetti rimangono attuali di fronte a una minaccia sempre più pressante sulle condizioni di vita di milioni di lavoratori.

L’inflazione ha colpito duro, e la differenza tra il prezzo dei consumi essenziali di una famiglia oggi rispetto a quello di tre anni fa, ci darebbe una cifra già molto superiore agli aumenti salariali contrattuali ottenuti e a quelli previsti dalle piattaforme rivendicative di categoria.

Gli oltre 4 milioni di lavoratori che oggi percepiscono retribuzioni orarie inferiori ai 9 euro lordi l’ora fissati dal progetto di legge delle opposizioni, appartengono spesso a categorie frammentate, abbandonate da decenni dai sindacati, disabituate alla lotta collettiva, alle quali ogni miglioramento delle condizioni lavorative è parso possibile solo attraverso l’iniziativa individuale o semplicemente la possibilità di cambiare lavoro. Questo spiega perché la lotta per il minimo salariale non ha scaldato i loro cuori. Ma, bisogna dirlo, una vera lotta non si è ancora vista e quindi non è stata nemmeno prospettata a questi lavoratori.

È difficile infatti definire lo sciopero generale di novembre, diviso in tre date diverse secondo le zone geografiche, una tappa della lotta per il salario. Le burocrazie sindacali sono quelle di sempre: gli interessi dei lavoratori espressi in modo puro e semplice non fanno parte del loro vocabolario e del loro modo di figurarsi il ruolo dei sindacati. Per quanto allarmante sia la condizione economica degli operai, per i vertici della Cgil e della Uil (non parliamo della Cisl che era contraria allo sciopero), non è mai il momento di scendere con la massima mobilitazione sul terreno rivendicativo di chi dice “vogliamo salari dignitosi, vogliamo il mantenimento del potere d’acquisto”. Per loro gli scioperi, le poche volte che vengono indetti, servono a segnalare alle istituzioni e al padronato la propria importanza, la propria indispensabilità per mantenere la calma sociale. Così le parole d’ordine direttamente rivendicative, che intimamente considerano una sgradita necessità, vengono “allungate” con la solita aria fritta della lotta per una “diversa politica economica”, per “cambiare la legge di bilancio”, “per dare un futuro al paese” e tutte le altre bubbole che conosciamo da decenni e che hanno consentito ai governi e alla classe imprenditoriale di ridurre i salari e le condizioni di lavoro a quello che sono.

Detto tutto questo, l’obiettivo di un salario minimo legale, ora fatto proprio anche da Cgil Uil, è da appoggiare. Ma non deve essere appeso alle polemiche parlamentari, e deve andare ben oltre i miserabili 9 euro lordi proposti da Conte e dalla Schlein.

Del resto una legge esiste già, ed è la Costituzione. Ed è singolare che dell’articolo 36 della Costituzione, che fissa il diritto di tutti i lavoratori a una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” tutti i sindacati abbiano sempre dato un’interpretazione di comodo, pretendendo che la contrattazione collettiva realizzasse già questo principio costituzionale. Oggi sono costretti ad ammettere che intere categorie di salariati sono “tutelati” da contratti, firmati da loro o da sindacati di comodo, i cui minimi tabellari sono distanti anni luce dalla garanzia di un’esistenza libera e dignitosa. Comunque, il fatto che un articolo della legge fondamentale dello Stato, sia rimasto inapplicato dalla sua promulgazione, nel 1948, ad oggi, significa che evidentemente non basta scrivere un diritto su un pezzo di carta perché questo diritto si realizzi. Ogni legge può essere aggirata, “interpretata” o semplicemente ignorata da chi ne ha i mezzi, da chi dispone della forza economica e politica necessaria.

Si ritorna alla questione dei rapporti di forza. Se non si sviluppa un’adeguata pressione della classe lavoratrice, attraverso una campagna di scioperi seria, di quelle i cui effetti sono registrati da tutti i “sismografi” dell’economia, tutte le leggi di questo mondo rimarranno lettera morta.

È chiaro che l’obiettivo del salario minimo dovrebbe essere inserito in una rivendicazione salariale più ampia di cui gli effetti dell’inflazione negli ultimi anni, come si è detto, forniscono importanti punti di appoggio. In questo modo si coinvolgerebbero nella lotta anche quegli strati di lavoratori salariati tutelati da contratti migliori e che spesso sono anche i più sindacalizzati e più abituati alla mobilitazione collettiva. Perché è chiaro che questa battaglia non può essere portata avanti dai soli “lavoratori poveri” che scontano anni e anni di abbandono sindacale. Questi lavoratori possono essere risvegliati alla lotta collettiva solo da un grande slancio di combattività da parte dei settori meglio retribuiti e meglio organizzati della classe lavoratrice e questa, a sua volta, può essere mobilitata soltanto se vede negli obiettivi rivendicativi la possibilità di un miglioramento sostanziale e concreto delle proprie condizioni.