Dopo la morte della giovane Mahsa Amini, brutalmente picchiata dalla polizia in un commissariato per non avere indossato correttamente il velo, in tutto l'Iran le proteste sono dilagate per un mese. Giovani donne e anche uomini hanno manifestato per le strade, scontrandosi con la polizia nonostante le migliaia di arresti e la repressione che ha fatto oltre cento morti.
Su iniziativa degli studenti, spesso con il sostegno degli insegnanti, diverse università del Paese hanno sospeso le lezioni. A Teheran, Isfahan, Tabriz e in un'altra dozzina di città, i manifestanti hanno occupato gli edifici universitari, scandendo uno degli slogan popolari del movimento: "Donna, vita, libertà", ma anche: "Gli studenti preferiscono la morte all'umiliazione". All'Università Sharif delle Scienze di Teheran, la polizia antisommossa è intervenuta per allontanarli manu militari, per poi prenderli in custodia. Il movimento è sembrato suscitare un'ampia simpatia, poiché diverse personalità, sportive come i calciatori della nazionale, o culturali, hanno mostrato il loro sostegno alla protesta. Molti luoghi di cultura sono rimasti chiusi in segno di protesta. Sebbene siano spesso simbolici, i gesti di sostegno mostrati da personalità precedentemente fedeli al regime sono rischiosi. Ad esempio, è stato arrestato un ex presentatore della televisione pubblica, accusato di aver incoraggiato le rivolte e la solidarietà con il nemico.
Ma in tutto il paese i gesti di solidarietà e anche gli scioperi si sono moltiplicati. Milioni di sfruttati soffrono a loro volta per la penuria, l'inflazione, la crisi e la corruzione delle autorità e possono provare simpatia per questa rivolta dei giovani. L'obbligo di indossare il velo per tutte le donne di più di 7 anni è stato imposto dall'ayatollah Khomeini subito dopo la caduta del regime dello Scià nel 1979. Dopo essere riusciti a capeggiare il movimento di rivolta del popolo iraniano contro questo regime, i religiosi sciiti volevano a loro volta imporre la loro dittatura e il loro ordine morale. Il velo, simbolo della sottomissione delle donne all'ordine patriarcale, è stato per il nuovo regime religioso uno strumento d'oppressione e un pretesto per la repressione. La protesta contro gli abusi della polizia morale può quindi destare simpatie in tutti i ceti sociali e diventare giustamente una protesta contro il potere in quanto tale, cioè la dittatura del regime della repubblica islamica.
Come nel 2017 o nel 2019, come per ogni protesta che lo minaccia, il regime degli ayatollah cerca di opporre gli interessi nazionali del Paese ai manifestanti e accusa le potenze occidentali di manovrare le lotte. Ad esempio, il 3 ottobre, l'ayatollah Ali Khamenei, Guida Suprema della Repubblica Islamica dell'Iran, fischiato dai manifestanti che scandivano "Morte al dittatore", ha parlato per la prima volta, affermando che: "questi disordini e l'insicurezza sono opera degli Stati Uniti e del regime sionista". La realtà è che i governi, quello americano, come quello israeliano e quelli europei sono per lo più rimasti silenziosi. A parte qualche critica diplomatica, l'atteggiamento di Biden o Macron nei confronti della brutale dittatura di Khamenei è molto misurata quando questa stessa dittatura si scontra con il suo stesso popolo. Se per decenni le potenze occidentali hanno cercato di indebolire il regime dei mullah, salito al potere rovesciando la monarchia dello scià filoamericano, non vogliono che venga rovesciato da una rivoluzione popolare. Anche se è meno docile all'imperialismo rispetto all'Arabia Saudita o a Israele, il regime iraniano svolge anche lui il ruolo di gendarme in Medio Oriente e il suo rovesciamento sarebbe un fattore di instabilità nella regione. In sostanza, Biden, Macron o Mattarella non sono più infastiditi dalla brutalità di Khamenei in Iran che da quella di Mohamed ben Salman in Arabia Saudita.X. L.