Cento anni fa, la "Marcia su Roma": Una parodia di rivoluzione

La macchina propagandistica fascista fabbricò il mito della Marcia su Roma come pietra miliare della “Rivoluzione fascista”. Ma questa rivoluzione è esistita solo nelle elucubrazioni di Mussolini e dei suoi innumerevoli servitori politici e intellettuali.

Anche nelle ricostruzioni storiche che si leggono o si ascoltano in questi giorni, viene enfatizzata la "rottura" che il 28 ottobre 1922 avrebbe rappresentato rispetto allo Stato liberale. Ma lo scenario nel quale si mosse il fascismo e che ne fece un suo attore fondamentale, fu la reazione sempre più violenta e rabbiosa delle classi dominanti di tutto il mondo nei confronti del crescente movimento operaio. Il fascismo, in questo quadro, fu una delle possibili risposte. L'urgenza numero uno, in Italia e negli altri paesi, era la stessa: impedire alle idee comuniste di diffondersi e di conquistare la maggioranza dei lavoratori. L'immensa popolarità della Rivoluzione russa del 1917, aumentava il prestigio di quella parte del movimento socialista, minoritaria all'inizio della guerra, che aveva difeso, come aveva fatto Lenin, le posizioni internazionaliste e denunciato il carattere imperialista della guerra stessa. Bisognava impedire, che queste correnti, che si andavano organizzando in partiti comunisti, conquistassero il cuore e la mente della classe operaia. Su questo obiettivo, tutti i partiti della borghesia erano d'accordo.

Due anni di violenze impunite delle squadre fasciste

La Marcia su Roma fu il coronamento di due anni di violenze operate dalle bande fasciste contro le organizzazioni operaie. Questa controrivoluzione sociale, era appoggiata, organizzata, foraggiata dalle classi possidenti nei confronti di un movimento operaio che ai loro occhi si faceva sempre più minaccioso, fino al punto di mettere in discussione le basi stesse dell’ordinamento capitalistico. Non a caso, la sconfitta del movimento di occupazione delle fabbriche, sul finire del 1920, segna l’inizio dello scatenarsi delle aggressioni fasciste su scala sempre più grande e organizzata.

Le istituzioni dello stato liberale furono abbondantemente complici delle violenze fasciste. Altrettanto si può dire per le gerarchie cattoliche. Uno storico inglese, John Whittam, in un libro uscito nel 1977, dedicato alla storia dell’esercito italiano, scrive: “I successi del fascismo nel 1921-22 non sono un fenomeno misterioso. Capitalisti e agrari fornirono il denaro e i “covi”, ma siccome il successo del fascismo dipendeva essenzialmente dalla potenzialità di fuoco e dalla mobilità, l’appoggio delle autorità militari fu di fondamentale importanza. Senza gli autocarri e le armi dei depositi militari il trionfo fascista non sarebbe stato né tanto rapido né tanto spettacoloso. Il contributo delle autorità pubbliche – prefetti, giudici, polizia – fu un atteggiamento di benevola neutralità verso il fascismo, che divenne ben presto collaborazione attiva quando si comprese che le autorità centrali, a Roma, stavano assumendo una tattica analoga. La decisione di Giolitti di includere i fascisti nel suo blocco nazionale per le elezioni del 1921, unitamente al tacito appoggio del Vaticano per questa crociata antimarxista, diedero alla violenza fascista un’aura di rispettabilità che fece molto per riconciliare l’opinione dei moderati con il movimento”.

Ci si può fare un’idea della libertà d’azione di cui godettero le squadre fasciste dalle cifre “ufficiali”, cioè quelle fornite alcuni anni dopo dallo storico fascista Giorgio Alberto Chiurco, relative alle devastazioni compiute nel solo 1921: 17 giornali e tipografie, 59 Case del popolo, 119 Camere del lavoro, 107 cooperative, 83 Leghe contadine, 8 società mutue, 141 sezioni socialiste e comuniste, 100 circoli culturali, 10 biblioteche popolari e teatri, una università popolare, 28 sindacati operai, 53 Circoli operai ricreativi. Un totale di 726 sedi distrutte! E i morti, tra i militanti del movimento operaio, furono svariate centinaia.

La Marcia su Roma 

La sconfitta dello sciopero generale dell’agosto 1922, proclamato dalla Confederazione generale del lavoro, dal Sindacato ferrovieri, dall’Unione sindacale, per opporsi alle violenze fasciste, fu, per Mussolini e i suoi, la conferma che ormai non esistevano più seri ostacoli all’instaurazione di un governo fascista. Del resto, l'opera aperta di intimidazione e la mobilitazione delle squadre fasciste contro lo sciopero e gli scioperanti, erano avvenute, seguendo un piano preciso, sotto la protezione delle autorità statali. 

La mobilitazione che prese il nome di Marcia su Roma, fu variamente annunciata nei giorni precedenti. La questione si poneva ormai apertamente nei termini di farla finita con i vecchi leader liberali, con i loro intrighi e le loro ambizioni personali, che rallentavano la trasformazione dello Stato in un organo più adatto alle nuove necessità della classe dominante. Si potevano ancora utilizzare, questi vecchi tromboni, ma come elementi “decorativi” o come fiancheggiatori di un nuovo governo a direzione fascista. Il peso degli industriali nella farsesca rivoluzione inscenata dal partito fascista è indiscutibile sul piano storico. Alla vigilia della “Marcia”, Mussolini si incontrò a Milano con il presidente della Confindustria, Gino Olivetti, per concordare la fisionomia del nuovo governo. 

Il governo in carica, presieduto da Luigi Facta, che aveva già annunciato le proprie dimissioni, avuta notizia della mobilitazione delle squadre fasciste verso Roma, pensò che fosse naturale proclamare lo stato d’assedio nella capitale. La mattina del 28 ottobre, si sparge la voce che l’esercito si prepara a prendere il controllo di Roma per difenderla dall’attacco fascista. Mussolini, al sicuro a Milano, a due passi dal confine svizzero, non sa che pesci prendere. Ma il re lo toglie dall’impaccio rifiutandosi di firmare lo stato d’assedio. 

Con i fascisti che, più o meno inquadrati in formazioni paramilitari, scorrazzano e spadroneggiano per la capitale, Mussolini arriva a Roma il 30 ottobre in vagone letto e riceve dal re Vittorio Emanuele III l’incarico di formare il nuovo governo. L'esercito, pur messo in allarme nei giorni precedenti, forte di 28mila uomini e di artiglieria pesante, non spara un colpo. Questa fu la “Rivoluzione” dei fascisti. Contemporaneamente, nelle altre città italiane, i gruppi armati fascisti si impadronirono definitivamente delle amministrazioni locali con l’avallo dei prefetti.

Verso la dittatura

Mussolini diventa capo del governo orchestrando una sorta di crisi extraparlamentare, con l’aiuto della sceneggiata di un’insurrezione da operetta, in un paese dove ormai la quasi totalità dei prefetti e la grande maggioranza dei vertici dell’esercito, della polizia e della magistratura gli hanno assicurato la piena impunità e gli hanno fornito ogni possibile appoggio materiale. 

Il nuovo governo non fu esclusivamente fascista. Diversi esponenti liberali, liberaldemocratici e “popolari” ne furono chiamati a far parte e le camere votarono il governo Mussolini a grande maggioranza: 429 Sì, 116 No e 7 astenuti alla camera dei deputati. Tutti i partiti della borghesia, compreso il Partito popolare di matrice cattolica, dovettero convenire che per difendere il sistema capitalistico dal “pericolo rosso”, i metodi fascisti si erano dimostrati i migliori. E, per quanto tra i loro dirigenti ci fosse chi pensava di potersi poi sganciare dall’alleanza col fascismo e, una volta “sistemati” definitivamente i socialisti e soprattutto i comunisti, ritornare a condurre i giochi, le cose andavano in tutt’altra direzione.

Per quanto sempre più osteggiate dalla repressione governativa, alle organizzazioni operaie, restarono degli spazi legali, almeno fino a tutto il 1924, anno dell’assassinio del deputato socialista Matteotti da parte di una banda di sicari fascisti. L'eco e lo sdegno che suscitò questo ennesimo crimine fascista, aprì una grave crisi politica all’interno stesso del partito di Mussolini. Ma né in questo caso, né in altri che pure si produssero dopo il 1922, le direzioni socialiste e sindacali seppero imboccare la via di una lotta decisa. I pregiudizi “democratici”, il rispetto superstizioso per le istituzioni che pure erano evidentemente complici degli assassini fascisti, contribuirono in modo determinante a disorientare e disarmare la classe operaia. Il giovane Partito comunista, da parte sua, non poteva avere la forza e l’influenza per cambiare significativamente i rapporti di forza.

Superata la crisi Matteotti, il governo accelerò la sua evoluzione verso la forma di dittatoriale con le “Leggi fascistissime” varate tra il 1925 e il 1926. Contemporaneamente, Mussolini abbandonò gli slogan "rivoluzionari" e le rivendicazioni repubblicane, anticlericali e "proletarie" con le quali aveva cercato di ingannare gli strati popolari nei primi anni di vita del movimento fascista. I maggiori esponenti della grande borghesia, che un tempo avevano “convintamente” sostenuto le istituzioni della democrazia rappresentativa, sedevano ora sui banchi del Gran Consiglio del Fascismo, del Senato, delle varie Corporazioni e per più di vent'anni il regime fascista fu il più fedele e zelante servitore della grande borghesia italiana.

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