La Basilicata è una delle regioni simbolo della peggiore svendita del patrimonio e dei beni comuni, un luogo dove il peggiore “estrattivismo” ha avuto gioco facile. Alcuni esempi: Eni, con il gas e l’inquinamento delle falde acquifere nella val d’Agri; lo sfruttamento della miniera di silicio a Melfi, la Fiat-Sata. Un saccheggio che continua da tempo, sostenuto dalla penosa retorica della creazione dei posti di lavoro, per cui queste imprese sanguisuga passano come benefattrici.
Ora, a distanza di pochi decenni, il quadro roseo di uno sviluppo portatore di benessere per tutti mostra le sue crepe, come si può constatare a partire dal caso della fabbrica auto di Melfi, a circa 30anni dalla sua apertura. La casa automobilistica, non più Fiat ma Stellantis, gode nonostante la crisi di buona salute, macinando profitti e lauti dividendi per gli azionisti. Meno esaltanti sono le condizioni di lavoro che operaie e operai del gruppo vivono in linea, per l’aumento del dispotismo aziendale, l’intensificazione dei ritmi di lavoro, le riduzioni degli stipendi, lo sfrenato ricorso alla cassa integrazione fatto in questi anni.
Tavares, amministratore delegato di Stellantis, aveva annunciato poco dopo la fusione un piano di ristrutturazione del gruppo e un suo significativo snellimento, con migliaia di licenziamenti, circa 14mila solo in Italia, grazie alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie. In realtà i motivi ecologici, il passaggio alle auto elettriche, sembrano l’utile espediente per rilanciare gli affari e i profitti del settore riducendo i costi. Anche il recente rinnovo del contratto collettivo somiglia al piatto di lenticchie ottenuto a fronte di tagli drastici del personale e il peggioramento delle condizioni e dei carichi di lavoro.
Chi regge il gioco, le élite capitalistiche, non si lasciano scappare un’occasione così ghiotta: fare a meno di una parte del lavoro vivo, radicalizzare i processi di precarizzazione e di controllo, e allo stesso tempo aumentare lo sfruttamento. D’altro canto senza lotte le innovazioni tecnologiche non porteranno verso quelle che dovrebbero essere delle semplici scelte di buon senso, come ad esempio una drastica riduzione dell’orario di lavoro, l’aumento dei salari, l’anticipo dell’età pensionabile, prevenire e risarcire i danni psico-fisici che inevitabilmente quel lavoro, ripetuto per anni e anni, produce.
Invece nella furia innovatrice si annunciano migliaia di posti di lavoro in meno e peggiori condizioni di lavoro. Basta pensare che, per ridurre le spese per il consumo di energia, sulla linea di montaggio gli operai hanno lavorato con un caldo insopportabile nel periodo estivo; e poi, quando il problema è stato quello del freddo invernale, l’azienda si è accontentata di fornire maglie di pile. Dai picchetti alle maglie di pile, un salto da non poco per i lavoratori di Melfi che nel 2004 bloccarono per ben 21 giorni la fabbrica, dando vita a quella che viene ricordata come la ‘’primavera di Melfi’’.
Corrispondenza Melfi