80 anni fa: 8 settembre 1943, dal collasso dell’apparato statale al suo ripristino

L'8 settembre 1943, il governo Badoglio, al potere dalla destituzione di Mussolini 45 giorni prima, concludeva un armistizio con le potenze anglo-americane. Così poneva fine di colpo all'alleanza dell'Italia con la Germania, che rispose prendendo immediatamente il controllo di gran parte della penisola.

Il governo, il re Vittorio Emanuele II e i vertici dello Stato decisero immediatamente di scappare da Roma, abbandonando la popolazione al suo destino e rifugiandosi a Brindisi, nel sud che gli Alleati controllavano dallo sbarco delle loro truppe in Sicilia due mesi prima.

Il crollo dell'apparato statale

Con questa decisione, appresa via radio, decine di migliaia di soldati italiani si trovarono senza ordini né istruzioni. L'intera autorità dello Stato crollava. Giaime Pintor, giornalista borghese democratico, descrisse così la situazione: "I soldati che, nel settembre 1943, attraversavano l'Italia affamati e semisvestiti, volevano soprattutto tornare a casa e non sentire più parlare di guerra e di sacrifici. Erano un popolo sconfitto, ma erano consapevoli delle offese inflitte e subite ed erano arrabbiati dalle ingiustizie subite. Coloro che li avevano comandati e guidati per anni, i profittatori di guerra, i complici del fascismo, gli ufficiali abituati a servire ed essere serviti, ma incapaci di assumersi la minima responsabilità, questi non erano solo sconfitti: erano un popolo di morti".

Da parte sua, l'esercito tedesco rispose a questo caos e al voltafaccia del suo alleato instaurando nel Nord il regime fantoccio chiamato Repubblica Sociale Italiana. Un commando di paracadutisti tedeschi fece uscire Mussolini dal carcere del Gran Sasso e lo mise a capo di questa nuova versione del fascismo, interamente soggetta alle direttive di Hitler.

La fine di Mussolini, non della dittatura antioperaia

Da quando Mussolini era stato costretto a dimettersi e arrestato il 25 luglio 1943, il governo Badoglio e il re avevano negoziato segretamente con gli Alleati. L’obiettivo era di salvaguardare gli interessi della borghesia italiana nonostante la caduta del regime fascista e di evitare di essere trascinati insieme alla Germania nella disfatta.

Con la vittoria delle armate sovietiche a Stalingrado, la guerra si era orientata verso una vittoria del campo alleato. Nel campo dell'Asse, l'esercito italiano si dimostrava l'anello debole, collezionando una serie di sconfitte. In questo contesto la grande borghesia e le alte sfere dello Stato volevano liberarsi di Mussolini e prepararsi al rovesciamento dell'alleanza. Oltre all’evoluzione del rapporto di forza militare, il timore di un'esplosione sociale rafforzava l'idea che fosse giunto il momento di cambiare rotta. Già nel marzo 1943, in piena guerra mondiale e sotto una dittatura al potere da 21 anni, la serie di scioperi contro l'alto costo della vita che si era diffusa dalle fabbriche Fiat di Torino a tutte le principali città industriali del nord aveva rivelato l'esasperazione delle masse per la guerra e le sofferenze patite, ma anche il fatto che il regime non era più temuto.

Così lo stesso Churchill scrisse nelle sue Memorie: "Il fascismo in Italia è morto. Ogni traccia è stata spazzata via. L'Italia è diventata rossa in una notte. A Torino e a Milano, le manifestazioni degli operai e dei comunisti dovettero essere represse dalla polizia. (...) Non c'era più nulla tra il re e i patrioti che si erano radunati intorno a lui e avevano il controllo della situazione, e il bolscevismo strisciante".

Il governo Badoglio era stretto tra le truppe alleate che avanzavano nel sud del Paese e le armate tedesche nel nord. Allo stesso tempo, la rabbia delle masse faceva risorgere lo spettro delle rivolte operaie della fine della Prima Guerra Mondiale. Il governo impose lo stato d'assedio e vietò tutte le manifestazioni che salutavano la caduta di Mussolini. Tentava di mantenere la dittatura contro la classe operaia, e se il numero di vittime dello stato d'assedio fu relativamente basso, fu soprattutto perché i soldati erano riluttanti a sparare ai dimostranti e ai lavoratori in sciopero. Ma l'8 settembre e il caos che seguì la proclamazione dell'armistizio segnarono il crollo di ogni autorità e il collasso dello Stato.

Il P C Stalinista in soccorso della borghesia

Dopo l'8 settembre, il problema urgente della borghesia italiana era di ricostituire un apparato statale in grado di esercitare l'autorità una volta sconfitta la Germania. Badoglio e il re, rifugiatisi nel sud, cercavano con grande difficoltà di mantenere una parvenza di autorità statale, sotto la protezione delle truppe alleate. Ma nel resto del Paese avevano perso tutto e una rivoluzione diventava una possibilità concreta.

Di fronte a questa situazione si costituì nel nord il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) con l'obiettivo di imporre la propria autorità sui vari gruppi partigiani, spesso composti dai soldati lasciati senza guida dal governo, che volevano porre fine alla guerra e tornare a casa. Il Partito Comunista svolse allora un ruolo importante. Nonostante tutta la riluttanza della borghesia nei suoi confronti, tutta la politica della direzione stalinista le venne in aiuto.

Se il Partito Comunista era presente nella classe operaia, in particolare negli scioperi che ripresero nelle grandi fabbriche del Nord nonostante l'occupazione tedesca, non era per difendere una prospettiva rivoluzionaria. Gli scioperi operai e l'impegno di migliaia di militanti comunisti nella resistenza ai fascisti e all'esercito tedesco dimostravano che la rivoluzione era possibile. Ma per i dirigenti del Partito Comunista era solo la dimostrazione che per ristabilire l'ordine borghese si sarebbe dovuto contare su di loro.

A fine marzo 1944 il capo del PCI, Togliatti, di ritorno dall'URSS dove si era rifugiato, si affrettò a rassicurare la borghesia nel discorso rimasto famoso come "svolta di Salerno", dal nome della città in cui fu pronunciato. In linea con la politica dettata da Stalin, non si parlava di rivoluzione operaia, ma di un governo di unità nazionale che riunisse tutte le forze politiche antifasciste.

I dirigenti comunisti spacciarono questa politica di collaborazione di classe come una "prima fase" della rivoluzione, necessaria per liberare il Paese dal fascismo prima di liberare la classe operaia. Ma era solo l’inizio dell’inganno.

Il 25 aprile 1945, che vide la sconfitta delle armate tedesche e la fine di ciò che restava delle autorità fasciste, fu seguito dalla formazione di un governo di unità nazionale con la partecipazione di tre ministri comunisti, senza che si ponesse nemmeno il problema di destituire il re. Secondo Togliatti, divenuto ministro della Giustizia, non era ancora venuto il tempo della rivoluzione operaia perché il Paese doveva essere "ricostruito in modo responsabile".

La classe operaia affamata, che sopravviveva in mezzo alle rovine, fu quindi esortata dai suoi leader di partito a rimboccarsi le maniche e ad accettare il sovrasfruttamento necessario affinché la borghesia italiana potesse continuare a fare profitti in tempo di pace come in tempo di guerra. Come surrogato di rivoluzione il PC accettò infine di sostituire la monarchia, decisamente troppo compromessa con il fascismo, con la Repubblica. Proclamata nel 1946, fu celebrata come la "Repubblica nata dalla Resistenza" e "fondata sul lavoro", con “la Costituzione più democratica del mondo". Per tutto il periodo successivo, questi miti sarebbero stati utilizzati per ingannare le masse e i militanti del PC e giustificare il tradimento dei leader stalinisti.

In un momento in cui la fine della guerra aveva visto concretizzarsi le possibilità rivoluzionarie, in cui l'apparato statale stava crollando e la classe operaia si mostrava combattiva e mobilitata, la cosiddetta dirigenza comunista degli stalinisti italiani aveva permesso alla borghesia di ristabilire il proprio potere. Fino ai nostri giorni.

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