A un anno dal suo insediamento, si può ben vedere che l’operato del governo di destra non ha migliorato in niente le condizioni della maggioranza della popolazione. In continuità con chi l’ha preceduto, il governo Meloni ha messo in atto una “politica economica” che impoverisce chi è già povero e continua a distribuire agevolazioni e incentivi a questa o quella categoria di imprenditori, di banchieri e, in generale, di ricchi.
Con le prospettive che i vari centri di analisi internazionale attribuiscono all’economia italiana, è ragionevole aspettarsi un aumento delle tensioni sociali. Dunque, si fa più urgente, per i detentori effettivi del potere, cioè i grandi capitalisti delle banche, dell’industria della speculazione pura e semplice, stringere il controllo sui lavoratori, sui disoccupati, sui precari. E la coalizione di destra, se vuole continuare a beneficiare dell’appoggio di questa grande borghesia, deve mettere in campo tutto ciò che può servire a tenere buona la classe lavoratrice. Uno dei trucchetti che di solito ha qualche successo è quello di far leva sulla xenofobia, cioè sull’odio per gli immigrati.
Del resto, l’inquadramento e il disciplinamento delle masse ad opera dei partiti è storia del passato. L’astensionismo ha raggiunto percentuali mai viste anche nelle elezioni politiche dello scorso anno, testimoniando una sfiducia generalizzata nei confronti dei partiti. Le forze politiche che oggi formano la maggioranza hanno avuto il voto di un elettore italiano su quattro.
Ma un operaio che non vota non per questo non continua a produrre ricchezza, e se a convincerlo di non scioperare per i propri interessi assieme ai propri compagni, non servono più gli apparati di partito, serviranno almeno, questo sperano Meloni e soci, delle grandi campagne ideologiche basate sulle paure e sui pregiudizi, condite con del nazionalismo a buon mercato.
Se si esamina la questione a mente fredda, in un continente di quasi mezzo miliardo di abitanti, con una decennale tendenza alla denatalità e all’invecchiamento, (soltanto in Italia, dal 2020 al 2022 si sono persi 611mila abitanti e la popolazione di più di 65 anni è un quarto del totale) l’arrivo di qualche decina di migliaia di giovani in cerca di lavoro dovrebbe essere visto come una fortuna, e il flusso in sé comporterebbe problemi di gestione facilmente superabili in una delle ragioni più sviluppate e di più antica civiltà del mondo.
L’ostilità nei confronti degli immigrati non serve soltanto come strumento di distrazione di massa, serve anche per tenere bassi i salari. Chi sostiene che sono gli “stranieri” a peggiorare i salari e gli standard delle condizioni di lavoro dovrebbe riflettere sul fatto che più si diffonde l’ostilità nei loro confronti, più ostacoli si pongono alla possibilità per loro di vivere un’esistenza normale, più si espongono alle prepotenze e ai ricatti di padroni e proprietari di abitazioni sfitte e quindi ad accettare condizioni di vita e di lavoro inaccettabili per la maggior parte degli italiani. Il “dumping sociale”, di cui moltissimi datori di lavoro approfittano in modo vergognoso, è un prodotto del clima di razzismo e xenofobia, non dell’immigrazione. Ecco perché i lavoratori italiani hanno il massimo interesse ad estendere agli immigrati le stesse tutele che valgono per loro.
Il “problema dell’immigrazione illegale”, come viene chiamata perché ai nostri occhi appaia un crimine la semplice ricerca di un modo per sopravvivere, non è per niente un problema. Almeno non lo è per la classe lavoratrice. I problemi dei lavoratori sono altri, a cominciare dall’erosione dei salari. Ha scritto in un suo rapporto l’Ocse, l’organizzazione dei paesi più industrializzati: “L’Italia è il paese che ha registrato il calo dei salari reali più forte tra le principali economie”. Alla fine del 2022 i lavoratori italiani avevano perso il 7,5% del loro potere d’acquisto rispetto al periodo precedente allo scoppio della pandemia Covid. Questo significa che soltanto per portare un salario di 1500 euro netti alla capacità di spesa che aveva alla fine del 2019 bisognerebbe che aumentasse immediatamente di 112,50 euro.
Gli aumenti dei prezzi già avvenuti e quelli che si prevede avvengano e l’enorme diffusione del lavoro precario e dei salari da fame, offrono sufficienti indicazioni per definire una piattaforma generale di tutto il mondo del lavoro che punti non solo a recuperare quanto già perso con l’inflazione, ma a ottenere una salario minimo tabellare decente per tutti, indicizzato al costo della vita. Il vero problema, oggi, è non piombare nella miseria del “lavoro povero” per chi ancora non c’è e uscirne per i tre milioni che già ci sono. È una questione che non si può risolvere con le elemosine governative ma con gli scioperi e le lotte di piazza, imponendo che una quota della ricchezza nazionale venga strappata al capitale e venga distribuita al lavoro.