Questo testo è il documento politico adottato dalla nostra conferenza d’organizzazione di febbraio 2011.
La crisi non è alle spalle
Sulla scorta delle cifre fornite dai vari centri di analisi economica, fino a pochi giorni fa i giornali erano pieni di commenti a tinte rosa sull’andamento dell’economia mondiale. “Questa è la volta buona, questa volta siamo veramente fuori dalla crisi”, tale, più o meno, era il tenore dei giudizi degli esponenti delle banche, dei ministeri economici, delle associazioni imprenditoriali, per non parlare degli organismi internazionali come il Fondo Monetario Internazionale o l’OCSE. In Italia si riconosceva la persistenza di maggiori “difficoltà” ma si confidava di agganciarsi a questo ingranaggio messosi di nuovo in movimento. Poi l’entusiasmo si è andato stemperando man mano che le rivolte dei popoli nordafricani si allargavano e il conflitto con l’ordine costituito si approfondiva.
Da fatto marginale della politica internazionale, su cui magari versare qualche lacrimuccia per le vite umane sacrificate, la ribellione popolare passava ad essere trattata come un evento cruciale non solo dello scacchiere politico ma anche degli interessi economici dei paesi più sviluppati, non fosse che per le risorse energetiche di quella regione, gas e petrolio, da cui dipende per buona parte l’approvvigionamento europeo. L’atteggiamento delle maggiori potenze, storiche sostenitrici di tutti i più spietati regimi dittatoriali della regione, si è adattato alle nuove circostanze. La diplomazia occidentale ha così “scoperto” che Mubarak, Ben Ali o Gheddafi, sono dei sanguinari dittatori, dimenticandosi quanto il suo sostegno sia stato determinante nel mantenerli al potere per tanti anni. L’Italia non è certo stata a guardare gli intrighi degli altri. Tutti ricordano le pagliacciate che accompagnarono la visita ufficiale di Gheddafi con il baciamano nei suoi confronti da parte di Berlusconi. La propensione del premier per le carnevalate è nota, così come la sua ammirazione per i dittatori, del resto pubblicamente esternata, spesso in loro presenza, ma la sostanza dei rapporti con quel regime si è basata per molto tempo sul peso che, negli anni e sotto tutti i governi, il capitalismo italiano aveva conquistato nel rapporto con il capitalismo libico fino a divenirne il principale partner economico. L’Eni ha svolto e svolge tuttora il ruolo di perno della politica estera italiana in Africa, Medio Oriente e paesi dell’ex Unione Sovietica. Lo stesso ruolo giocato a suo tempo nel mettere al potere Ben Ali in Tunisia nel novembre del 1987.
La crisi economica e i rialzi speculativi degli alimentari, come i cereali, hanno sicuramente pesato in modo determinante sull’esplosione delle rivolte nei paesi del Maghreb, e queste ribellioni, per il loro esito ancora incerto, sembrano accumulare nuovi fattori di crisi. In un accreditato organo del capitale finanziario come il Wall Street Journal, lo scorso 20 febbraio si poteva leggere: “Non sorprende la rabbia del popolo egiziano: il paese è uno dei più vulnerabili all’aumento dei prezzi alimentari. Il cibo costituisce oltre il 40% della spesa per consumi, uno dei più alti livelli tra i paesi emergenti. Lo stesso è vero per Tunisia, Algeria e Marocco”. Negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Giappone, per avere un termine di confronto, la spesa alimentare pesa rispettivamente per il 7,2%, per l’8,7% e per il 14,3%.
Presentati con asettico distacco dagli organi della finanza mondiale, i listini delle materie prime, fra cui, appunto, gli alimentari, segnalavano da tempo non solo l’occasione di straordinari profitti per gli speculatori ma anche l’allargarsi insostenibile della miseria più profonda per milioni di persone. L’economia non è fatta solo di numeri e di scommesse sul rialzo dei titoli: essa è fatta del lavoro umano e agisce in un contesto sociale, fatto di persone in carne e ossa. Il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, ha detto di recente che l’aumento delle quotazioni agricole “costringerà alla fame un miliardo di persone nel mondo”. Ripresa dell’economia mondiale è significato, fino ad oggi, soprattutto ripresa dell’economia finanziaria e quindi ripresa della speculazione, ovvero profitti che le banche e i grandi gruppi finanziari intendono continuare a fare anche a costo di affamare intere popolazioni. La crisi politica del Maghreb, stando così le cose, è solo l’inizio. Noi non possiamo che augurarci che la classe operaia nordafricana, per il momento ancora forza ausiliaria, accumuli, nelle lotte di questi giorni, sufficiente esperienza per divenirne una protagonista indipendente, con i propri obiettivi e con i propri organi politici.
Anche senza tenere di conto della crisi politica che sembra allargarsi a tutto il mondo arabo, una nuova pesante ipoteca sul futuro dell’economia mondiale è stata posta dallo sviluppo del debito pubblico delle maggiori potenze economiche. La paura di veri e propri fallimenti degli stati, ha spinto i governi europei a dar vita ad una specie di fondo di sostegno che dovrebbe fungere da prestatore di ultima istanza, fornendo una garanzia per le banche centrali e per il sistema finanziario dei singoli paesi. Non c’è, come si può intuire, nessuna motivazione solidaristica dietro a questa decisione, c’è piuttosto la paura che il fallimento di uno stato, che già è stato sfiorato in Grecia, trascini con se l’intera catena delle connessioni finanziarie il cui controllo è nelle mani delle grandi potenze. Ma non è detto che la cura sia migliore del male e che la sensazione di poter lucrare in tutta sicurezza sui titoli del debito pubblico non spinga i grandi speculatori, dietro ai quali ci sono semplicemente le grandi banche, a far maturare un’altra bolla finanziaria e un’altra drammatica crisi del sistema creditizio. Intanto, di comune accordo, tutti i governi preparano una nuova “cura da cavallo” che comporterà ulteriori sforbiciate sui servizi pubblici e sui sistemi pensionistici.
L’Italia meglio degli altri?
In Italia, in ogni caso, anche prima che i paesi del Nord Africa esplodessero e che si affacciasse lo spettro del “debito sovrano”, la maggior parte della popolazione non aveva nessun motivo di ritenersi “fuori dalla crisi”.
La disoccupazione è al vertice delle paure. E si può capire, nonostante i portavoce del governo Berlusconi ripetano in ogni occasione che grazie a loro l’Italia è stata meno colpita dagli effetti sociali della crisi rispetto ad altri paesi. A ottobre 2010 il rapporto dell’ISTAT stimava all’8,7% il tasso di disoccupazione nazionale. La cifra totale delle persone senza lavoro raggiunge e supera i due milioni, la metà dei quali cercano lavoro da più di un anno. Si tratta del dato più alto dal gennaio 2004. Nonostante il Ministro del Lavoro Sacconi continui a negare l’evidenza, i dati della disoccupazione giovanile sono ancora più allarmanti. La percentuale dei senza lavoro tra i giovani oscilla tra un quarto e quasi un terzo. I giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano sono, secondo l’ISTAT , più di due milioni.
Il dato reale della disoccupazione è quindi verosimilmente diverso e più alto del dato ufficiale. A ingrossare le fila dei disoccupati hanno contribuito i precari espulsi dall’insegnamento all’inizio dell’anno scolastico e, dall’inizio di quest’anno, anche quelli del pubblico impiego a cui non verrà rinnovato il contratto. Infatti, oltre a bloccare fino al 2013 il rinnovo dei contratti e le retribuzioni dei dipendenti pubblici, la manovra finanziaria del governo Berlusconi prevede “di avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni nei limiti del 50% della spesa sostenuta per le stesse finalità nel 2009”. Il che significa, secondo i calcoli della Cgil, 75-80.000 precari a casa nel 2011, molti dei quali erano al lavoro da anni.
Il quadro della disoccupazione non è completo se non si considerano anche i lavoratori in cassa integrazione. Si parla di 650.000 operai e impiegati, molti dei quali di fabbriche per cui la ripresa potrebbe non arrivare mai. Sono molte le aziende che non riaprono dopo le 52 settimane di cassa integrazione ordinaria. Malgrado la proroga a tutto il 2011 della cassa in deroga, in un tempo relativamente breve saranno sempre di più i lavoratori disoccupati senza coperture.
L’incertezza del futuro e il crollo dei redditi per cassa integrazione e disoccupazione contraggono brutalmente il tenore di vita delle famiglie dei lavoratori. Secondo una ricerca pubblicata dall’ISTAT, più del 30% delle famiglie vive oramai in uno stato di emergenza continua: il 16,5% sono indebitate per motivi diversi dal mutuo per la casa (erano 14,8% l’anno prima), il 12,4% (l’anno precedente erano il 10,5%) di queste non riesce a far fronte alle rate del debito. Crescono anche le famiglie che nel corso dell’anno, almeno una volta, non hanno avuto i soldi per acquistare cibo, passando dal 4,4 al 5,3%. Cresce la povertà, in poche parole, e cresce anche quando, qua e là, gli analisti economici trovano gli indicatori di una ripresa già in corso. Nel corso dell’ultimo anno, ad ogni modo, l’argomento “crisi” è servito per inasprire le condizioni generali della classe lavoratrice. In pochi mesi abbiamo assistito ad una serie di attacchi precisi e molto pesanti. Abbiamo avuto l’ennesima e sicuramente non ultima riforma delle pensioni, che posticipa il diritto ad andare in pensione di un anno per chi ne aveva già maturato i requisiti, per le donne del Pubblico Impiego che non abbiano raggiunto i quaranta anni di contributi il diritto alla pensione scatta a 65 anni e non più a 60. Il cosiddetto “collegato lavoro”, poi, ha modificato il quadro normativo del contenzioso tra lavoratore e impresa, indebolendo la posizione dei lavoratori anche di fronte a gravi abusi dei datori di lavoro e consegnando di fatto il giudizio all’arbitrato privato.
Per quanto riguarda la contrattazione collettiva, inoltre,per tutto il Pubblico Impiego i contratti sono bloccati fino al 2013 mentre la Federmeccanica ha disdetto unilateralmente il contratto dei metalmeccanici siglato nel 2008. Nel settore specifico dell’automobile sono arrivati gli attacchi più duri, quelli orchestrati da Marchionne contro gli operai, prima a Pomigliano d’Arco e poi a Mirafiori.
Come dovrebbero difendersi i lavoratori?
Se i lavoratori fanno proprio il punto di partenza di tutti i ragionamenti padronali, è inevitabile che le conclusioni che tirano non li portino troppo distanti da questi. La borghesia assegna ai lavoratori il ruolo di truppa, sempre disponibile a farsi macellare, magari con entusiasmo patriottico, nella lotta tra vari gruppi capitalistici per mantenere e aumentare i propri profitti. L’economia è “loro”, il mondo è “loro”. Quando dicono che bisogna impegnarsi a far risalire la china all’Italia intendono che bisogna che i lavoratori si sacrifichino per mantenere a loro lo stesso livello di privilegi, anche in periodo di crisi. L’operaio e l’impiegato, il tecnico e l’addetto alle pulizie, fanno tutti parte di un esercito di subordinati la cui sopravvivenza è affidata alla loro utilità nella grande macchina del profitto capitalistico. “Che cos’è il proletariato?”- si domandava Engels in un testo di metà ‘800- “il proletariato è quella classe della società, che trae il suo sostentamento soltanto e unicamente dalla vendita del proprio lavoro e non dal profitto di un capitale qualsiasi; benessere e guai, vita e morte, l’esistenza intera della quale dipende dalla domanda di lavoro, cioè dall’alternarsi dei periodi d’affari buoni e cattivi, dalle oscillazioni d’una concorrenza sfrenata. Il proletariato o classe dei proletari è in una parola la classe lavoratrice del secolo decimo nono”. Non è questa, nel ventunesimo secolo, la condizione precaria, senza certezze, senza stabilità, che i politici e gli economisti al servizio del gran capitale ci presentano come moderna?
Come si sfugge a questa morsa? Con la lotta, certo. Ma la crisi, e perfino la “ripresa”, vera o presunta che sia, hanno talmente aumentato, come si è visto, il numero di quanti hanno perso il lavoro e di quanti non possono sperare di averne uno decente, oltre ad aggravare le condizioni salariali e normative di chi ancora ha un posto, che la lotta, per avere speranza di successo, non può che essere generale, di tutti i lavoratori. E’ inevitabile quindi che divenga una lotta politica, perché se non si tratta più di una vertenza di fabbrica o di categoria ma del tentativo di affermare gli interessi di un’intera classe sociale, il che, in pratica, significa conquistare una fetta più larga della torta della ricchezza nazionale a discapito dei profitti e delle rendite questo tentativo si scontra contro la resistenza delle classi privilegiate, in primo luogo della grande borghesia, delle banche, dei vari gruppi finanziari e industriali. Tutta questa gente dispone non solo del potere politico, ma anche di un poderoso e capillare apparato di propaganda. È chiaro, allora, che serve un significativo mutamento dei rapporti di forza nella società a favore della classe lavoratrice.
Lo sviluppo logico delle necessità di una difesa efficace delle condizioni dei lavoratori nel loro insieme ci porta quindi alla necessità di una politica operaia e di una forza organizzata capace di sostenerla.
Quale politica ci serve?
Sappiamo benissimo che se una cosa è logica e giusta non è affatto garantito che si realizzi da sé. I condizionamenti che frenano o addirittura paralizzano l’insieme dei lavoratori, che impediscono loro di agire come un tutto unico per difendere gli interessi che li accomunano sono molti. Alcuni sono oggettivi e sono, come abbiamo visto, riconducibili alla paura della disoccupazione, altri sono politici o ideologici.
La classe dei lavoratori salariati potrà difendere i propri interessi d’insieme solo se saprà sviluppare una propria azione politica. Normalmente, invece, tutta la scena delle lotte politiche è occupata dai partiti della borghesia. I lavoratori sono chiamati a sostenere questo o quel partito, questo o quel candidato, nessuno dei quali osa mettere in discussione il dominio del capitale sull’economia e sulla società. Se prendiamo in esame gli appelli o le dichiarazioni pubbliche degli esponenti del centrosinistra, vediamo chiaramente che a Berlusconi e al suo governo si imputa, in fin dei conti, di non essere in grado di corrispondere, con la necessaria efficienza alle esigenze del capitalismo italiano. Nel linguaggio edulcorato della politica ufficiale si parla di “economia”, senza aggettivi, ma la realtà è quella di una economia capitalista che si contrappone agli interessi dei lavoratori e, in ultima istanza, a quelli di tutta la società. È ben vero che il tasso di prepotenza, di illegalità, di corruzione e di menzogne raggiunti dalla politica del centrodestra, conditi con le smargiassate e le provocazioni del piccolo Bonaparte di Arcore, si sono guadagnati il disprezzo di un numero sempre maggiore di cittadini, ma il nodo politico per la classe lavoratrice non è la sostituzione di una coalizione di governo con un’altra ugualmente, o forse ancora di più, legata al grande capitale. Il vero problema di oggi è l’affermazione di un rapporto di forze favorevole nell’ambito dei rapporti economici, nell’ambito della produzione e della distribuzione della ricchezza sociale.
Per agire come un soggetto politico indipendente la classe lavoratrice deve opporre un proprio programma a quello delle classi dirigenti. Questo programma non è una serie di punti o di rivendicazioni inventati a tavolino ma è qualcosa che scaturisce dalla stessa situazione economica, dalla stessa realtà della crisi e dalle sue conseguenze sui lavoratori. Come militanti comunisti rivoluzionari ci sforziamo di scorgere nei caratteri della crisi, nei colpi che assesta alle condizioni della classe lavoratrice, le misure necessarie alla difesa complessiva del mondo del lavoro. Naturalmente questo sforzo di comprensione e di elaborazione può produrre degli errori, ma quello che difendiamo prima di tutto è un metodo: proporre e difendere un punto di vista generale che corrisponda agli interessi generali della classe lavoratrice. Sulla crisi e, in genere, sull’evoluzione dei rapporti economici, non deve esistere solo la scelta tra i vari esponenti degli interessi del capitale, di destra o di sinistra, liberisti, semi-liberisti o dirigisti, ma deve esistere il punto di vista della classe che manda avanti con il proprio lavoro l’intera macchina dell’economia capitalista.
La forza delle necessità imposte dalla crisi, per quanto riguarda la condizione dei lavoratori, è tale che anche tra i sindacati, tra alcuni dirigenti politici o tra alcuni intellettuali ci si avvicina alla loro formulazione. Naturalmente, non ci si spinge mai fino in fondo, non si porta fino alle sue logiche conseguenze il singolo provvedimento auspicato perché questo spingerebbe troppo in là il movimento operaio, pericolosamente vicino ai limiti dei rapporti capitalistici di proprietà. Prendiamo l’esempio della rivendicazione di un salario minimo garantito. È un provvedimento imposto dal numero sempre più grande di rapporti di lavoro “atipici”, in cui non esiste praticamente alcun riferimento ai parametri del contratto nazionale di categoria e in cui la retribuzione è affidata all’arbitrio dei datori di lavoro. Già nel 2004, si era sviluppato un certo dibattito tra economisti vicini al centrosinistra, molti dei quali, “con prudenza”, si dicevano favorevoli a un salario minimo legale. Nel mondo sindacale bisognerebbe ricordare la campagna della Confederazione Generale del Lavoro francese per 1500 euro minimi mensili per tutte le categorie, mentre più di recente, con un linguaggio che il moderatismo imperante nella politica e nel giornalismo italiani definirebbe da “sinistra radicale”, l’Unione Sindacale Svizzera ha lanciato la propria campagna per il minimo salariale per legge. Uno degli slogan utilizzati è: “Voglio vivere col mio salario!”. Ecco alcune delle argomentazioni del sindacato svizzero: “Mentre i baroni della finanza si riempiono le tasche a dismisura con bonus milionari, c’è chi ogni giorno è costretto a stringere la cinghia, fino a soffocare. In silenzio.
Questa non è affatto giustizia sociale. Il salario minimo è pertanto uno strumento importante per lottare contro la precarietà e arginare i rischi di scivolare verso la nuova povertà”.
Un altro esempio di, parole d’ordine diffuse “con prudenza”, di provvedimenti di cui si chiede la realizzazione in tono sommesso, di rivendicazioni timidamente avanzate, ma che sono ancorati a delle necessità reali, è la richiesta, da parte della Cgil, di una tassa sui grandi patrimoni. Inutile dire che una maggiore decisione e una maggiore convinzione nell’avanzare questa rivendicazione garantirebbe alla Cgil un appoggio di massa. È anche chiaro che, data l’enorme proporzione di ricchezza sommersa in Italia, il problema di individuare i patrimoni soggetti a imposizione condurrebbe alla necessità di indagare sul tenore di vita, sulle spese di lusso, sulla quantità di beni mobili e immobili di cui i vari ricconi hanno la disponibilità, indipendentemente da tutti i trucchi usati per frodare il fisco. Ma qui ci si avvicina, come si è detto, ai limiti “sacri” del capitalismo e della proprietà privata. E certo, nessun professore, nessun dirigente politico e nemmeno nessun burocrate sindacale oserà mai varcare quei limiti.
Ma i lavoratori non hanno di queste preoccupazioni. Essi non hanno il minimo interesse a rispettare i limiti, che siano dettati dalle leggi vigenti o dalla consuetudine, che le classi capitalistiche hanno alzato attorno ai propri privilegi. Le prime rivendicazioni che la situazione economica impone nell’immediato, siano o meno armonizzabili nell’attuale quadro di leggi ordinarie e costituzionali, nascono dalla necessità di sfuggire alla miseria e dall’affermazione del diritto ad un’esistenza dignitosa:
-Salario minimo legale. Valido per tutte le categorie e collegato all’andamento reale del costo della vita.
-Indennità di disoccupazione unica. Proporzionata almeno al salario minimo legale e corrisposta a chi ha subìto il licenziamento, indipendentemente dalla durata del periodo di lavoro precedente, dalla categoria di provenienza, dalla tipologia di rapporto di lavoro. L’indennità dovrà essere corrisposta fintanto che il lavoratore non trovi un’altra occupazione. Estensione dell’indennità a tutti i giovani in cerca di prima occupazione.
-Proibizione dei licenziamenti.
-Distribuzione del lavoro a parità di salario. L’introduzione dell’informatica ha permesso l’accumulo e la concentrazione di una grande quantità di dati, nelle varie istituzioni preposte a monitorare l’economia, nelle stesse aziende, almeno in quelle di grandi dimensioni, nelle organizzazioni imprenditoriali. Esistono le premesse tecniche per rendere sufficientemente semplice la distribuzione delle ore di lavoro fra tutti i lavoratori impiegati in una stessa azienda o in uno stesso ramo produttivo, secondo i carichi di lavoro esistenti. Non deve più accadere che mentre da una parte si fanno straordinari fino al limite della sopportazione, dall’altra si mettono gli operai in cassa integrazione. Si dovranno eleggere delle commissioni composte da operai, impiegati e tecnici per realizzare praticamente questa rivendicazione.
-Forte imposta progressiva su profitti e rendite. Tanto più necessaria nel momento in cui l’adozione di tutti questi provvedimenti, che sono d’altra parte dettati da necessità minime di sopravvivenza, hanno un costo che deve essere posto in carico soprattutto alle classi più ricche.
Tutti questi obiettivi indicano la direzione di marcia di una mobilitazione generale e continuativa della classe lavoratrice, partendo dalle condizioni oggettive in cui la crisi la ha costretta. Nella misura in cui siamo mille miglia lontani, nella coscienza dei lavoratori, dall’intraprendere questa direzione, essi rappresentano uno strumento di propaganda. Ma non si tratta di una propaganda astratta. Non si tratta di offrire ai lavoratori soltanto analisi, spiegazioni e commenti sul disastro economico che li sta colpendo, si tratta di dire: “La via d’uscita c’è. Essa richiede coraggio e impegno, ma non ci sono alternative”. I rivoluzionari non possono rispondere alle domande che la crisi mette in bocca ai lavoratori semplicemente con formule sindacali più radicali, da una parte, o con la descrizione di un socialismo bello e fatto che non si sa da quale gradino dell’evoluzione sociale dovrebbe prendere le mosse. Abbiamo bisogno, attraverso la propaganda, di legarci a giovani, a lavoratori che accettino la sfida di un impegno che non darà risultati immediati, certo, ma che ha un rapporto logico, diretto con la situazione oggettiva, così come ognuno la sperimenta sulla propria pelle, e che si muove nella linea di ciò che dovrebbe essere fatto.
I punti che abbiamo elencato, d’altronde, non sono che una parte di un programma più ampio che, nel suo insieme, dovrebbe servire da riferimento tanto per le rivendicazioni immediate quanto per la soluzione definitiva alle contraddizioni drammatiche in cui il capitalismo trascina da almeno un secolo e mezzo la società. Non neghiamo che questo programma è in gran parte quello del Manifesto dei comunisti di Marx e quello di transizione di Trotskij, per limitarci al più vecchio e al più recente, in ordine di tempo, degli elaborati in cui il movimento comunista rivoluzionario si è misurato con la necessità di offrire ai lavoratori una sintesi politica capace di offrire risposte nello stesso tempo comprensibili e ancorate al movimento reale della storia.
Ma se riscopriamo nelle parole d’ordine di settanta, cento o centosessanta anni fa la forza di idee ben vive e vitali, ciò è dovuto soltanto alla sostanziale somiglianza tra il capitalismo di oggi e quello dei primordi, ovvero alla sua incapacità di svilupparsi senza incorrere in crisi catastrofiche e senza produrre una miseria di massa su scala sempre più ampia.
Di quale partito abbiamo bisogno
Nelle condizioni concrete in cui si svolge in Italia la lotta per la costruzione di un partito operaio su basi rivoluzionarie, la difesa e la propaganda di un programma operaio, chiaro e comprensibile, ha anche il significato di cercare e di preparare un terreno comune, di facilitare nuovi legami e collaborazioni nel ristretto e disgregato ambiente dei militanti marxisti. Si ripete continuamente, nei volantini e nei periodici dei gruppi rivoluzionari, che bisogna unificare le lotte, che non si può vincere isolandosi fabbrica per fabbrica, ecc. lo scriviamo anche noi. Ma questo che significa? Significa indicare la necessità di una lotta politica della classe. E, più praticamente, significa tentare di stabilire dei legami permanenti con quei lavoratori che condividono la necessità di una tale politica nel momento in cui ancora non esiste. Unire le lotte per noi non è solo uno slogan sindacale, ma il punto di partenza per una evoluzione politica dei lavoratori più coscienti e combattivi.
In un suo noto libro, scritto agli inizi del ‘900, proprio a proposito delle caratteristiche di un partito operaio marxista che nella Russia di allora era ancora da costruire, Lenin affermava: “Bisogna sognare!”. Cioè bisogna avere un’idea di quello che dovrà essere in concreto lo strumento di una politica operaia. Bisogna che si propagandi non solo l’idea della necessità di un partito operaio oggi in Italia, ma anche che se ne definiscano sia pure approssimativamente quelle caratteristiche che scaturiscono da tutta l’esperienza trascorsa del movimento operaio e socialista. Il partito operaio, inteso come organo riconosciuto dalla maggior parte dei lavoratori quale propria emanazione, non potrà vedere la luce, sicuramente, senza una ripresa in grande stile delle lotte di classe e della combattività degli stessi lavoratori. Quando e come questo potrà accadere non lo sappiamo. Chiamiamo, non a caso, “spontaneità” il movimento di lotte e di scioperi che periodicamente, e a volte a distanza di decenni tra un movimento e l’altro, agita tutti i paesi del mondo. Lo definiamo con questo termine per sottolineare che si tratta di fenomeni che nessuna volontà politica è in grado di scatenare a piacimento. Quello che tutta la storia del movimento operaio ci mostra, tuttavia, è che i più importanti partiti marxisti del passato furono costruiti anche grazie ad una minoranza di militanti che aveva capito la necessità di un ruolo e di un’azione politica indipendente della classe lavoratrice prima ancora che le circostanze sociali concrete consentissero a questo “sogno” di diventare realtà.
Di quale tipo di partito ha bisogno la classe lavoratrice? Di un partito che abbia una solida base di principi e di rivendicazioni politiche e sociali condivisi da tutti i suoi militanti. Un partito che rivendichi con orgoglio l’appartenenza al comunismo internazionalista e rivoluzionario, i cui esponenti non hanno aspettato il collasso dell’Urss per denunciare la degenerazione del regime sovietico, ma hanno mantenuta viva, in condizioni difficilissime la continuità con l’autentico spirito rivoluzionario del marxismo contro Stalin e contro un movimento “comunista” internazionale che, già alla fine degli anni ’20, era divenuto l’organo controrivoluzionario della burocrazia sovietica. Di un partito in cui si pratichi concretamente la democrazia operaia, secondo il criterio, mai insuperato fino ad oggi, del centralismo democratico. Di un partito che non confonde l’essere rivoluzionario con l’essere estremista, che non prende i suoi desideri per realtà e che cerca sempre di comprendere quello che gli accade intorno. Un partito che si pone il problema di parlare a tutti i lavoratori e non solo a quelli più politicizzati e che quindi non parla un linguaggio da iniziati o un gergo da club esclusivo.
Detto questo, si pone naturalmente, il problema di che cosa fare per andare in questa direzione. Indubbiamente, ogni piccolo gruppo di marxisti rivoluzionari ha il diritto e il dovere di continuare a portare avanti il proprio intervento là dove ha mosso i primi passi e ha messo qualche radice. Tuttavia è sempre più chiaro che il peggioramento drammatico e generalizzato delle condizioni non solo dei lavoratori ma di gran parte delle classi popolari (disoccupati, partite Iva, piccoli artigiani, ecc.) condiziona l’azione politica di ogni gruppo o circolo di militanti marxisti, per quanto la loro attività sia limitata prevalentemente alla propaganda e al proselitismo. In un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente, i lavoratori con i quali entriamo in contatto ci domandano: “Questi sono gli effetti della crisi del capitalismo, come dite voi, bene: abbiamo visto che difenderci fabbrica per fabbrica non ci porta da nessuna parte, come dite voi, ma allora che cosa si dovrebbe fare? Per che cosa bisognerebbe battersi, come si deve rispondere alla crisi, alla disoccupazione, ai salari da fame, alla precarietà?”. È la richiesta, anche se spesso inconsapevole, di una politica operaia. Ed è un terreno sul quale bisognerà bene che i militanti rivoluzionari si confrontino e che trovino la via di una collaborazione sempre più stretta.
I socialisti di inizio secolo XX si conquistarono la fiducia delle masse proponendosi come rappresentanza politica dei lavoratori. Che cosa volevano i socialisti divenne sufficientemente chiaro a un numero crescente di operai, di contadini, di studenti. I socialisti erano per il suffragio universale, per le otto ore, per la perequazione salariale tra uomini e donne, per l’imposta progressiva, per l’istruzione gratuita e obbligatoria, per la progressiva socializzazione dei mezzi di produzione … . Tutte cose che rappresentavano una risposta precisa alle principali questioni che lo sviluppo del capitalismo poneva alle masse proletarie e semiproletarie, sia sul terreno economico-sociale che su quello politico. Possiamo naturalmente trovare tutte le differenze che vogliamo fra la situazione di oggi e quella di allora, sarebbe perfino puerile enumerarle. Rimane il fatto che un programma e una politica, che ne sia l’articolazione concreta in un periodo determinato, erano e rimangono un grande punto di forza per il domani ma anche per l’oggi. In un impegno serio a definire, discutere, sperimentare, i lineamenti di un programma e di una politica della classe lavoratrice, le forze che si richiamano alla tradizione rivoluzionaria del movimento operaio possono avviare una maturazione che le porti lontano dal pericolo di un isolamento settario e favorisca quelle intese fra raggruppamenti diversi, quell’abitudine al lavoro comune, che attraverso l’annodarsi di relazioni di fiducia reciproca, porti un domani non troppo lontano ad una vera e propria fusione delle correnti rivoluzionarie. Sarebbe ancora poca cosa di fronte alla grandiosità del compito di costruire un vero partito operaio, ma sarebbe comunque il primo significativo passo in quella direzione.