Vietare i licenziamenti! Spartire il lavoro!

Il primo luglio scorso sono state abrogate le norme "emergenziali" che proibivano alle aziende il licenziamento dei lavoratori.

Come era facilmente prevedibile, e nonostante un accordo tra sindacati e Confindustria che non obbliga gli industriali a niente più che “a prendere in considerazione” vie alternative al licenziamento, le aziende di tutte le dimensioni hanno cominciato i licenziamenti di massa.

Così, mentre i sapientoni disseminati tra associazioni padronali, cattedre universitarie e partiti di governo e d’opposizione continuano a farci la lezione sulla necessità di non “sprecare denaro” nell’assistenza alle famiglie più povere perché sono le “aziende che creano il lavoro” - e quindi il denaro pubblico deve andare a loro - le aziende non solo non creano lavoro ma lo distruggono. Non solo la GKN o la Whirlpool ma la stessa Stellantis, nata dalla fusione della FCA con la Peugeot annuncia per bocca del suo amministratore delegato l’intenzione di “alleggerire” il gruppo di 12mila posti di lavoro.

Come rispondere? Ai lavoratori viene prospettata come “realistica” la via dell’ammodernamento dell’apparato industriale, la via della “competitività”. Ognuno articola questa idea generale a modo suo. In ballo ci sono anche i famosi miliardi dei fondi europei. Ma ciò che va sottolineato è l’inganno del ragionamento che suona più o meno così: diamo soldi alle imprese perché si riorganizzino e conquistino nuovi mercati e, successivamente, questo processo porterà nuova occupazione. Intanto però non passa giorno in cui non si annuncino chiusure di impianti e licenziamenti collettivi. Se Torino, ad esempio, da capitale dell’automobile diverrà un deserto industriale, in quale altra città saranno fatte le nuove assunzioni? Dove si trovano tutte queste nuove opportunità di lavoro?

Solo chi non conosce o finge di non conoscere come funziona il capitalismo contemporaneo può ignorare che i capannoni, il macchinario e i lavoratori che formano un’azienda sono soprattutto un ingranaggio di una più grande macchina per fare quattrini. Le aziende si comprano, si smembrano, si chiudono per “fare quattrini” e la qualità delle merci prodotte o dei servizi prestati è una componente sempre meno importante di questo meccanismo folle.

A noi pare che la situazione imponga invece di battere tutta un’altra strada. La legislazione d’emergenza varata nel corso della pandemia ci ha mostrato che se si vuole si possono imporre misure in altri tempi definite impossibili. Allora la prima rivendicazione deve essere il ripristino integrale del divieto di licenziamenti senza scadenze temporali. La seconda deve essere la spartizione dei carichi di lavoro a parità di trattamento salariale, cominciando dalle grandi imprese.

Siamo di fronte ad un’epidemia non meno drammatica di quella del covid-19: l’epidemia dei licenziamenti e della povertà di massa. Occorrono quindi provvedimenti d’emergenza e che vadano direttamente incontro alle esigenze della massa lavoratrice.

Non ci aspettiamo che provvedimenti del genere maturino nelle teste degli uomini di governo, tutti ugualmente asserviti agli interessi del capitale. Solo la mobilitazione più ampia e duratura della classe lavoratrice può imporli.

Ogni sciopero, ogni lotta aziendale che vadano nella direzione del contrasto ai licenziamenti vanno appoggiati, ma la distanza tra quello che andrebbe fatto, in termini di lotte generali, e quello che si sta facendo nella realtà, definisce la distanza tra chi dirige le organizzazioni sindacali e gli interessi reali e drammaticamente urgenti della classe lavoratrice. Per questo, dalle stesse file degli operai, quando questi si attivano per resistere ai licenziamenti o per opporsi alle prepotenze padronali, devono sorgere gruppi che si propongano di dirigere in prima persona le proprie lotte. Nella nascita e nella continuità di questi gruppi è racchiuso il segreto del futuro riscatto della classe lavoratrice.