Uscire e unirsi

Di fronte al ripetersi di iniziative come quella di quei tre lavoratori dell’Alcoa che si sono accampati su di un silos a 70 metri di altezza o a gesti come quello di quel minatore della Carbosulcis che si è ferito a un polso in diretta TV, dobbiamo essere chiari. Parliamo qui da lavoratori a lavoratori, cioè da gente che è dalla stessa parte della barricata e che, condividendo le stesse preoccupazioni, le stesse urgenze e gli stessi bisogni di questi lavoratori, si preoccupa per dare alle loro e alle nostre battaglie il risultato migliore.

Partendo da questa preoccupazione, ci sentiamo di dire che tutti i gesti o le iniziative che si caratterizzano per autolesionismo, per ricerca della visibilità ad ogni costo, per un ripiegamento su se stessi, sulla propria situazione aziendale o locale, procurano un danno non solo a chi le compie ma anche alle prospettive di una ripresa più generale delle lotte operaie.

Ma, detto questo, bisogna ben riflettere sul perché fioriscano, nel corso delle tante crisi aziendali, certe iniziative e certi atti. In molti casi, le forme di lotta scelte dagli operai delle aziende in crisi prendono la via dell’isolamento. Si cerca disperatamente di suscitare l’attenzione delle televisioni, dei giornali, dei politici locali, ma sempre puntando sulla particolarità della propria situazione. Invece, nove casi su dieci, è solamente nel collegarsi agli altri settori della classe lavoratrice, a livello di categoria, di gruppo industriale, di territorio, che si può trovare la forza per opporsi agli effetti della crisi o per limitare i danni il più possibile.

Ma anni e anni di costante lavorio di apparati politici e sindacali hanno contribuito a demoralizzare la classe lavoratrice, a non farle apprezzare nella giusta misura la forza enorme che collettivamente rappresenta in rapporto all’economia capitalistica. Oggi l’operaio della fabbrica in crisi si guarda attorno e se anche comprende che la sua condizione è la stessa di altre decine di migliaia come lui, vede nella dimensione generale dei fatti economici un terreno sul quale non ha gli strumenti per avventurarsi. Tutti parlano di crisi, di spread, di grandi piani per il rilancio dell’economia, ma non c’è una voce che lo rappresenti e che tenga testa ai rappresentanti del governo, del padronato o delle banche. Non c’è una politica operaia a cui riferirsi, non c’è un partito operaio. Ripiegare sulla propria azienda appare l’unica strada realistica, e cercare la spettacolarità nelle forme di lotta sembra l’unico modo di “farsi sentire”. La disperazione che spesso trapela, non solo da atti estremi ma anche dalle dichiarazioni di tanti lavoratori, è figlia di una situazione nella quale le forze economiche che agiscono sul sistema industriale, provocando le ristrutturazioni e le chiusure di molte aziende, appaiono troppo “grandi” e troppo “lontane” perché si possa sperare di opporvisi. La scala locale o aziendale diviene così l’unica a cui si pensa di potersi riferire e sulla quale, con un malinteso senso di realismo, si pensa di poter incidere.

Ma tutto questo non è che una manifestazione dell’assenza di un partito operaio, un partito in grado di rappresentare l’interesse generale di tutti i lavoratori e di organizzarne le mobilitazione su obiettivi chiari che rappresentino una risposta all’altezza della situazione. Bisogna partire da questa consapevolezza, come militanti rivoluzionari del movimento operaio. Difendere e propagandare l’idea della necessità del partito comporta indicare almeno le linee generali di un programma politico, ricavate non da elaborazioni a tavolino ma dalle necessità primarie che la crisi ha messo in primo piano. Senza un programma politico, per quanto abbozzato, senza cioè una risposta alle domande più generali che la stessa crisi suscita, l’idea del partito rimane un’astrazione sterile, buona per discussioni fra intellettuali, ma incapace di indicare ai lavoratori una strada alternativa all’isolamento aziendalista.

La redazione de “L’Internazionale”