UNA RIVOLTA PICCOLA PICCOLA

Mentre esce questo giornale, in Italia – più che cinque referendum – si celebra una serie di scommesse che la Cgil, in mancanza di azioni migliori, ha deciso di sottoporre al voto. La prima scommessa riguarda il raggiungimento del quorum del 50% più uno, per validare la votazione; la seconda il raggiungimento della maggioranza di SI; la terza si augura di non fare la fine del referendum 2011 sull'acqua bene pubblico

Così dopo un anno ci siamo arrivati: raggiunto il numero delle firme per la richiesta delle consultazioni, ottenuta l'ammissibilità dei referendum, l'8 e il 9 giugno si votano i referendum su lavoro e cittadinanza. Ricapitolando, i 4 quesiti riguardano: 1) l'abolizione del Dlgs n. 23 del 2015, altrimenti noto come Jobs Act, e quindi il ripristino della riassunzione in caso di licenziamento illegittimo; 2) il superamento della misura di 6 mesi per l'indennità di licenziamento nelle piccole imprese, lasciando la discrezionalità al giudice; 3) la reintroduzione delle causali per le assunzioni temporanee, anche nei primi 12 mesi; 4) l'estensione della responsabilità solidale delle aziende committenti nell'appalto e nel subappalto, in caso di infortunio e malattia professionale della lavoratrice o del lavoratore; 5) dimezzare da 10 a 5 anni i tempi di residenza legale in Italia per poter richiedere la cittadinanza italiana. Ovviamente non saranno queste semplici notazioni che si troveranno sulle schede, ma lunghissime locuzioni citanti articoli e riferimenti legislativi vari, ma infine la sostanza è questa.

Tanto per sgombrare il campo da fraintendimenti, ovviamente ci si augura che la maggioranza della popolazione sia andata a votare, ed è altrettanto ovvio che ci si augura una vittoria schiacciante dei SI'. Ciò premesso, si rimane basiti di fronte al vicolo cieco in cui è riuscita a cacciarsi la Cgil. Lo stesso sindacato che, quando era il momento di far sentire alta la propria voce contro il Jobs Act, si limitò a organizzare una manifestazione nazionale di sabato e uno sciopero di 8 ore con manifestazioni provinciali a dicembre 2014, più qualche occasionale flash mob prima dell'entrata in vigore della legge – dopodiché morta lì, quello stesso sindacato vorrebbe convincere, oltre 10 anni e qualche altra sconfitta dopo, che basta fare una croce su una scheda e tutto si risolve. I toni stessi della chiamata alle urne raccontano tanto della debolezza intrinseca dell'operazione: lo slogan IL VOTO E' LA NOSTRA RIVOLTA denuncia – a quanto pare inconsapevolmente - l'ammissione di una fallimento, la constatazione di non avere saputo imporre le proprie rivendicazioni con la lotta. Significa che si rinuncia a organizzare lavoratrici e lavoratori sul terreno naturale dei sindacati, quello del conflitto e dell'assunzione di responsabilità, facendo credere che si può realizzare lo stesso risultato utilizzando semplicemente una matita. A questa classe operaia sfilacciata e dispersa, in gran parte scoraggiata e delusa, cosa offre il sindacato in materia di difesa delle proprie condizioni? Invita a giocarsi tutto con un voto, senza minimamente chiedersi perché mai tutte le categorie della società – compresi padroni e padroncini, bottegai e professionisti, gente che campa di speculazioni finanziarie, politici e preti - dovrebbero essere incaricate di decidere se lavoratrici e lavoratori dipendenti debbano o no essere riassunti se sono stati licenziati senza giusta causa, o debbano essere assunti a tempo solo per poterli tenere sotto ricatto permanente.

Che i SI vincano o perdano, forse nemmeno la Cgil stessa si rende conto della portata di questa deriva: di fatto sta suggerendo che – anziché organizzare la classe lavoratrice per affermare i propri diritti – bisogna consegnarla al giudizio insindacabile di tutta la società. Di più: che questo tentativo di scorciatoia, questa scommessa azzardata, è la cifra massima della rivolta che riesce a mettere in campo. Siccome non riesce a organizzare la classe perché sia capace di difendersi con le sue proprie armi, se ne lava le mani e la affida al voto: qualora il quorum non sia raggiunto, o magari i NO vincano, la colpa potrà comodamente esser fatta ricadere sui lavoratori stessi, che sono andati al mare e non hanno creduto nell'efficacia dello strumento.

E infine, anche qualora i SI riescano ad affermarsi, sarebbe opportuno valutare l'effettiva portata politica della vittoria. Ricordiamo ancora i referendum del 2011 per la gestione pubblica del servizio idrico. All'epoca si raggiunse il quorum del 54% e il 94% dei sì, 27 milioni di italiani votarono per l'acqua “bene comune”, come si diceva allora. Il risultato è stato poi boicottato da tutti i governi che si sono succeduti, nessuno escluso. Perché ciò che non si può ignorare sono gli effettivi rapporti di forza: o ci si dimostra capaci di conquistare e difendere i risultati con una forza effettiva, oppure basta un soffio di vento per spazzarli via.

Aemme