L’Organizzazione internazionale del lavoro, organo delle Nazioni Unite ha pubblicato uno studio, l’8 aprile scorso, che fotografa la situazione europea in rapporto alla disoccupazione. Nel mese di febbraio risultavano dieci milioni di disoccupati in più rispetto al 2008. Solo negli ultimi sei mesi, i 27 paesi dell’UE hanno registrato un milione di disoccupati in più. Il tasso di disoccupazione sfiora oggi l’11% nell’insieme dei paesi dell’Unione ed è al 12% nel gruppo dei 17 che formano la zona euro. Undici dei 26 milioni registrati erano senza lavoro da un anno o più.
I giovani e i meno qualificati sono i più colpiti. Il tasso di disoccupazione giovanile nell’UE, che lo studio giudica “allarmante”, è del 23,5%. L’Italia è ben al di sopra di questa media con il 38% di giovani senza occupazione, preceduta solo da Grecia (58,4%) e Spagna (55,7%). Nel frattempo si è enormemente moltiplicato il numero di lavoratori “flessibili”. Cioè di quella massa di semi-occupati che vengono impiegati in modo parziale o saltuario e che, pur non figurando nelle statistiche della disoccupazione, sopravvivono con redditi che sono molto spesso al di sotto della soglia di povertà.
Il rapporto dell’OIL si spinge fino a riconoscere un rapporto di causa-effetto fra i tagli alla spesa sociale e le politiche di “austerity” in genere, condotte senza riguardo al loro colore politico, da tutti i governi indistintamente, e l’esplosione della disoccupazione. Quello che non scrive e non può scrivere è che queste politiche non sono portate avanti dai governi per riavviare l’economia e quindi, in prospettiva, per offrire nuove opportunità occupazionali, ma per preservare o perfino per incrementare i profitti dei grandi gruppi, nonostante la crisi e talvolta grazie a questa.
Su La Stampa dello scorso 16 aprile, un articolo di Gianni Riotta commentava un rapporto del Mc Kinsey Global Institute, sempre sulla disoccupazione ma riferito all’insieme dei paesi industrializzati. Si parla di 40 milioni di senza-lavoro in totale. Lo studio del Mc Kinsey Institute toglie ogni illusione sui risultati di una eventuale ripresa degli investimenti: la tecnologia – scrive Riotta- “ negli Usa ha cancellato 2.000.000 di posti tradizionali, creandone meno di 500.000”.
Non è la tecnologia a cancellare posti di lavoro, aggiungiamo noi, ma l’uso capitalistico che ne viene fatto, perché risparmiare tempo di lavoro in un processo produttivo significa ridurre il numero degli occupati solo se rimane invariato o magari viene aumentato il loro orario di lavoro. È una questione di aritmetica prima ancora che di sociologia!
Ritornando allo studio dell’OIL, questo fa riferimento al “rischio crescente di tensioni sociali”. Non vi è dubbio che questo rischio esista e non c’è che da augurarsi che divenga una rivolta generalizzata della società contro un manipolo di profittatori che la sta soffocando.