"Siamo tutti sulla stessa barca": per far digerire la manovra da 25 miliardi di euro il presidente del Consiglio Berlusconi non si spreca in fantasia. In nome di una stessa barca che non esiste, la classe lavoratrice deve sacrificare livelli di vita e di reddito, condizioni di lavoro e diritto alla pensione, servizi pubblici, scuole e assistenza sanitaria. A chi giova? Su questa barca alla deriva, non basterà mai spalare carbone per i motori. Per mantenere a galla la classe parassita che prende il sole sul ponte, al peggio non c’è limite.
Non c’è da farsi illusioni, probabilmente è solo l’inizio: i 25 miliardi della manovra di maggio non basteranno. Dalla crisi finanziaria, innescata dalle banche americane nel 2008, si sta rapidamente passando alla crisi dei bilanci pubblici, che si sono indebitati proprio per mantenere in piedi le banche. Dopo aver ricevuto iniezioni robuste di denaro pubblico, la guerra di corsa sui mercati finanziari è continuata allegramente come prima, più di prima, e oggi nel mirino c’è proprio il debito pubblico. E’ una danza sull’orlo del vulcano, una fornace inesauribile dove vanno a incenerirsi il lavoro e le energie di chi non ha mai potuto trarne vantaggio, ed è chiamato a pagare da sempre.
Annunciando la manovra, il sottosegretario alla Presidenza Gianni Letta ha dichiarato che saranno necessari "sacrifici molto pesanti, molto duri", che però il Fondo Monetario Internazionale pretende, visto che chiede all’Italia "riforme strutturali e contenimento della spesa per i salari".
Pronta, la stampa borghese aveva già premurosamente preparato un dossier (Corriere della Sera, 24.5.10), sui presunti astronomici aumenti conseguiti dal ’99 a oggi dalle buste paga dei dipendenti pubblici, un balzo del 42% secondo il giornale. Peccato che la stragrande maggioranza dei lavoratori pubblici potrebbe chiedere dov’è finita la sua parte, visto che questi incrementi sono calcolati inglobando le forze armate (che non saranno toccate dal blocco), i prefetti, la magistratura, il corpo diplomatico e gli alti funzionari di Stato, cioè non solo il grosso degli aumenti, ma categorie i cui stipendi sono definiti da leggi e non da contratti. Ma d’altronde, commenta lo stesso giornale "si rastrellano più soldi toccando i salari di 3 milioni e mezzo di statali che quelli di alcune centinaia di padreterni, ovvio". I dipendenti pubblici, tra l’altro, già dal settembre 2009 potevano sapere che lo stanziamento per il rinnovo del loro contratto era previsto – e solo da aprile 2010 – in ben 9 euro mensili, aumentabili in successive tranches fino a 20 nel 2012. Un bell’onere, per lo Stato: tanto valeva bloccare tutto. La discussione sulle forme di contratto, sulle modalità di calcolo dell’inflazione, sul divario tra inflazione programmata e reale è un dibattito già superato dai fatti: l’aumento del costo della vita è posto interamente a carico dei lavoratori pubblici, in media un segno meno di 1.700 euro nel triennio. E comunque, ammoniscono severamente politici di Governo e opposizione, si tratta di lavoratori che – se non rientrano fra i precari che la finanziaria spazzerà via, come i 26.500 dell’Università, ai quali non verrà rinnovato il contratto - sono da considerarsi depositari di un privilegio inammissibile: il posto di lavoro. Così come era intollerabile che al flagello dei licenziamenti e della cassa integrazione nel settore privato non corrispondesse una scure sui salari pubblici, sarà difficile che il blocco dei contratti pubblici non abbia conseguenze anche su quelli del settore privato. Già è così per l’età pensionabile, che in pratica sale di un anno per tutti, visto che sarà possibile andare in pensione solo dopo un anno dal conseguimento dei requisiti. E’ un altro dibattito superato dai fatti: inutile discutere dell’ennesima riforma delle pensioni. Si fa, e basta.
I tagli incideranno anche sui servizi pubblici, visto che si riducono di oltre 10 miliardi di euro i trasferimenti agli enti locali, cioè le spese destinate ai servizi pubblici. E’ possibile che molti enti locali non abbiano più le risorse per mantenere in piedi l’assistenza all’infanzia, i servizi sociali, e anche quel minimo di intervento sulle attività culturali finora realizzabile. "L’Italia spende troppo" ha dichiarato Berlusconi presentando la manovra. Troppo per che cosa? Gli emolumenti ai parlamentari restano gli stessi.
Gli esigui provvedimenti sull’evasione fiscale si limitano a ripristinare la tracciabilità sulle spese oltre i 5.000 euro, che era stata eliminata dal Governo Berlusconi. In compenso, si potranno sanare gli immobili "fantasma", mai censiti dal Catasto, ovviamente con un modico obolo che configura l’ennesimo condono.
Di fronte a questi provvedimenti potrebbe stupire il basso profilo di qualsiasi reazione. E’ evidente che il Governo scarica interamente sui lavoratori e sulle classi popolari l’onere della crisi. E’ una finanziaria di classe, e si capisce. L’opposizione non contesta il carattere di classe, si lamenta della scarsa efficacia; Bersani non deplora il blocco dei salari, magari li avrebbe scambiati con qualche posto in più per i precari. Linda Lanzillotta considera equo il congelamento dei salari, ma lo scambierebbe con una lotta più aggressiva all’evasione fiscale. Tutti sono d’accordo che i sacrifici vadano fatti, ma alla manovra governativa mancherebbe una visione generale delle prospettive che invece loro, l’opposizione, sarebbero stati capacissimi di imprimere. Soprattutto, se sacrifici devono essere, nessuno si azzarda a pretendere che paghino i responsabili della crisi.
Perfino Epifani sarebbe disposto ad accettare sacrifici per i lavoratori, basterebbe che non pesassero solo su di loro. Così dichiara al settimanale "L’Espresso": "Va bene sacrifici, ma contesto che quanti hanno la fortuna di avere di più non vengano chiamati a fare la propria parte". Ma i sacrifici non vanno bene per i lavoratori. I lavoratori hanno già dato, per vent’anni di arretramenti e peggioramenti, dal blocco della scala mobile alla precarizzazione del lavoro, dal sostanziale abbattimento della pensione pubblica all’indebolimento del contratto nazionale, alle recenti norme sull’arbitrato.
E per che cosa dovrebbero sacrificarsi ancora? Solo per mantenere in vita tutta quanta la baracca: per consentire ai centri finanziari di continuare a lucrare, agli azionisti di incassare i dividendi, ai politici di ingrassare alle loro spalle, agli evasori fiscali di rallegrare i porti turistici con i loro yachts nuovi di pacca. In sostanza, per consentire a un sistema malato di sopravvivere alle loro spalle. Per conservare, non sappiamo per quanto, questo strano incidente della storia, un’organizzazione economico-sociale assurda e criminale, che per mantenersi in vita deve costringere la maggioranza dei suoi componenti a subordinare la propria sopravvivenza al totem intoccabile dei profitti e delle rendite finanziarie.
Quanto costa all’umanità mantenere in vita un sistema simile?
A.M.