Un patto per la crescita (dei profitti?)

E’ una lunga marcia di avvicinamento, ma il punto d’arrivo sembra ormai una logica conseguenza. Tra debolezze, ritardi, un gruppo dirigente che non ha voglia di consumare energie, la Cgil vede la luce in fondo al tunnel dell’isolamento: un bel patto per la crescita in stile 1993, ma peggio del 1993. Peccato che per i lavoratori sarà al massimo un faro abbagliante, che minaccia di portarli fuori strada.

Chi ha parlato dello sciopero CGIL del 6 maggio come di un “contenitore” più che di una giornata di lotta organizzata non aveva tutti i torti: privi di parole d’ordine concrete, i lavoratori hanno potuto riempire le piazze a seconda delle iniziative locali, ma per lo più in ordine sparso e senza un obiettivo chiaro. L’elenco delle doglianze messo in campo da Cgil non si schierava nella direzione di una lotta generalizzata e di lungo respiro contro chiunque – imprese, Banche, Governo - abbia la pretesa di costringere i lavoratori a sostenere interamente tutto il peso della crisi, ma aveva l’ambizione di essere per tutti gusti. E infatti annoverava una serie di richieste, per così dire ragionevoli: ammortizzatori sociali, fisco giusto, lotta all'evasione fiscale, nuova politica industriale, rilancio degli investimenti, formazione e ricerca, welfare di qualità, adeguamento del livello pensionistico, democrazia nell’elezione della rappresentanza nei luoghi di lavoro, nuova politica di accoglienza dei migranti, federalismo equo, e via dicendo. Nessuno di questi argomenti si distingue per concretezza e forza, tutt’altro: anzi, parla di tutto senza dire niente e in definitiva lascia il tempo che trova, perché non è stringente né fondamentale né particolarmente vicino a quello che i lavoratori percepiscono come necessario e urgente: salario, posti di lavoro, fine del precariato. Ma sicuramente, nemmeno tra gli argomenti che la Cgil ha messo in campo per lo sciopero si ritrova l’essenziale della relazione presentata appena cinque giorni dopo al Direttivo Cgil dal segretario confederale Fabrizio Solari, documento poi votato dalla maggioranza.

C’è da chiedersi se i lavoratori, che hanno scioperato e sono scesi in tante piazze il 6 maggio, siano consapevoli della svolta che la Cgil intende dare alla loro giornata di lotta. Per molti lavoratori si era trattato di un appuntamento atteso a lungo, troppo a lungo e perfino fuori tempo, per una classe operaia che ha subito una serie di attacchi gravissimi. Molti di questi lavoratori sono convinti che la portata di questi attacchi avrebbe meritato risposte più immediate e decise, e non soltanto uno sciopero isolato di 4 ore, portato quasi sottovoce all’intera giornata dalle singole categorie. Molti altri hanno colto l’occasione, che aspettavano da mesi, per provare a opporsi alla marea crescente di chi tenta di convincerli che devono piegarsi alla logica delle imprese. Molti hanno scioperato, pur disillusi sull’effettivo peso che poteva avere una mobilitazione poco articolata e senza un progetto di continuità. Altri l’hanno fatto, senza vedere prospettive ma nella convinzione che anche poco è meglio di niente. Altri perché pensavano che comunque è indispensabile costruire un argine, e lo sciopero è un inizio.

Ma sicuramente nessuno immaginava – anche perché nessuna assemblea, volantino, comizio ha ritenuto di farglielo sapere – quello che nel frattempo era nei progetti della dirigenza Cgil. Nessuno pensava che il peso dello sciopero si potesse spendere in questa direzione. Si chiama “Patto per la crescita”, e il nome è tutto un programma: questa proposta, che il Direttivo Nazionale ha approvato l’11 maggio, immediatamente dopo lo sciopero, con 77 sì, 19 no e 3 astenuti, non solo non è stata mai nemmeno minimamente discussa fra i lavoratori, ma era proprio totalmente sconosciuta. Apprendiamo quindi che, forse fiaccata da mesi di astinenza dai tavoli dove si firmano gli accordi, e magari ansiosa di rivestire il ruolo di “sindacato responsabile”, la Cgil è disponibile a fare marcia indietro e a venire incontro alla controparte. Così, in nome della priorità riconosciuta come essenziale, la “crescita”, sembra che la Cgil sia disponibile a sorvolare su una serie di capisaldi, che fino a poco fa venivano affermati come indiscutibili parole d’ordine. Nell’illusione che “crescita” significhi anche miglioramento delle condizioni dei lavoratori, ci si dichiara disponibili a rivedere le tutele del contratto nazionale, che potrà essere “meno prescrittivo e più inclusivo”, cioè: visto che garantisce meno tutele, sia sul piano salariale che sul piano normativo, si può applicare a più lavoratori. Largo quindi alla contrattazione spinta di secondo livello, e magari a intese stile Marchionne, applicate con la forza in forme varie. Largo agli incrementi di produttività, largo al salario legato alla produttività, largo alla crescita. Se poi di quest’ultima i lavoratori porteranno il peso, e le imprese ne trarranno i profitti, è un affare secondario. L’importante è che sia possibile, senza lacci e lacciuoli: la Cgil non disdegna l’idea dell’ “esigibilità dei contratti”. Un’affermazione pericolosa questa, perché ha conseguenze vincolanti solo per i lavoratori, costretti ad accettare tutte le condizioni, una volta che qualcuno ha firmato per loro, ma non ha mai avuto conseguenze vincolanti per le imprese.

In sostanza, la Cgil si candida a un nuovo patto sociale concertativo in sostituzione di quello, ormai desueto, del 1993, da proporre magari d’intesa con Cisl e Uil, per rimettersi nel giro dei sindacati “che contano”.

Non è per questo che abbiamo scioperato!