I giovani di oggi sono i poveri di oggi e di domani. Così sembrano concordare Istituti socio-economici di ricerca prestigiosi come il Censis, ma anche gli analisti della Banca d’Italia e organismi sovranazionali come l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), che ha diffuso i suoi aggiornamenti sul nostro Paese nel corso del G20 di Buenos Aires. Cosa possiamo eccepire? Senza dubbio ce ne eravamo accorti
L’economia migliora – così dicono - anche se solo con la media del pollo; in compenso crescono anche le disuguaglianze e gli squilibri. Dalla Banca d’Italia ci giunge notizia che è stato rilevato un aumento del reddito medio equivalente del 3,5% nella rilevazione relativa al 2016. Il reddito medio equivalente è una misura convenzionale che si calcola rapportando il reddito familiare netto a un fattore di scala, usato per rendere equivalenti i redditi di famiglie composte in modo diverso. Eurostat impiega la cosiddetta scala Ocse modificata, quindi calcola un peso pari a 1 per il primo componente adulto della famiglia, 0,5 per ogni altro adulto (di età maggiore o uguale a 14 anni) e 0,3 per ogni componente di età minore di 14 anni. Ne deduce che, per la prima volta dopo la crisi, il reddito medio è appunto aumentato. Disgraziatamente il reddito medio è quel che è, un parametro vago che maschera una realtà molto diversa, confermata anche dagli stessi studi che accreditano i presunti miglioramenti. La stessa indagine sui bilanci delle famiglie testimonia infatti una crescita consistente delle persone con reddito equivalente inferiore al 60% del reddito mediano, considerato la soglia del rischio di povertà, una crescita aumentata fino al livello record del 23%.
Una parte rilevante di persone a rischio povertà è costituita da giovani, se è vero quanto sostenuto dall’Ocse: “Negli ultimi dieci anni, la povertà è aumentata soprattutto tra i giovani, riflettendo l’inefficacia dei programmi anti-povertà locali”, e non è dovuta specificamente alla carenza di programmi anti-povertà. Di programmi anti-povertà ci sarebbe molto meno bisogno, se per consentire il mantenimento di profitti costanti non si fosse ricorso sistematicamente allo smantellamento delle tutele e dei diritti del lavoro. La crisi non ha fatto che peggiorare una situazione in fase avanzata già prima del 2008, e se si sta tornando lentamente a un livello di occupati inferiori solo dell’1,2% a quello di dieci anni fa, le ore lavorate sono invece molte meno, con un calo che si aggira intorno al 5,8% (studio Cgil Fondazione Di Vittorio).
La nuova occupazione è a termine e sempre più part-time, anzi la metà dell’incremento delle assunzioni è proprio part-time, e per lo più part-time non per propria scelta, ma per scelta dei padroni. E’ che altro non si trova, e lo sanno bene i ragazzi costretti a barcamenarsi nella cosiddetta “area del disagio”, tra lavoretti temporanei, lavoro somministrato, collaborazioni, lavori subordinati spacciati per autonomi. Per la maggior parte di loro l’ingresso nel mondo del lavoro avviene in ritardo, e il livello retributivo è quasi sempre molto basso. Se oltre tre milioni di giovani non studiano più, ma non trovano nemmeno lavoro, quasi altri tre milioni che lavorano sono impegnati in occupazioni cosiddette “a bassa qualità e bassa intensità”, cioè guadagnano poco e lavorano poche ore. Lavorare non basta: 71.000 sono i giovani sottoccupati, 656.000 quelli con contratto part-time involontario e 415.000 impegnati in attività non qualificate (dati Censis). Difficile uscire dal gorgo della precarietà, ancora più difficile se gli anni passano, e nuove generazioni premono per accedere all’occupazione – non a caso le difficoltà maggiori appartengono alla generazione che si è affacciata una decina di anni fa sul mercato del lavoro.
Come se non bastasse, lo stesso Censis mette in evidenza un futuro da vera e propria bomba sociale per questo esercito di giovani lavoratori a basso reddito. Reddito basso e discontinuo oggi, unito alla normativa sulle pensioni tesa al loro progressivo smantellamento, significano estrema povertà domani: nel giro di trent’anni, quasi sei milioni di lavoratori in “area disagio” oggi, potrebbero ritrovarsi in estrema povertà domani. Difficile fare ipotesi diverse, se la loro contribuzione previdenziale dovesse restare negli anni inesorabilmente bassa. Quanto alla previdenza privata, è escluso che questi lavoratori possano alimentare i fondi integrativi, se il loro reddito è insufficiente anche per le spese correnti. Non a caso è preoccupato anche il quotidiano di Confindustria, per il quale dall’inizio della crisi “I 30/40enni sono la generazione perduta del risparmio […] Invece di crescere, in questi dieci anni quella generazione ha ridotto le proprie mosse finalizzate a costruirsi una pensione di secondo pilastro. E di conseguenza le proprie prospettive di reddito future” (Il Sole 24 Ore, 4.4.18). Oltre a consentire profitti, quella generazione avrebbe dovuto anche prestare i propri soldi alle Banche!
Naturalmente tutto viene presentato come un “conflitto tra generazioni”, come se essere riusciti a ottenere una pensione decente facesse dei padri i carnefici dei figli. In realtà il conflitto si trova in tutt’altro luogo della società, è un conflitto nelle classi sociali, dove la classe degli sfruttatori prepara sempre nuovi disastri per gli sfruttati. Il futuro è nelle mani delle nuove generazioni, che non devono rimanerne inconsapevoli.