“Tutto bene”, ma per chi?

 

Il rapporto annuale del governatore uscente della Banca d’Italia, Ignazio Visco, tenuto lo scorso 31 maggio, ha dato nuovo vigore alle periodiche ondate di entusiasmo sulla salute dell’economia nazionale. Quasi una certificazione della forza e, addirittura, della superiorità del capitalismo nostrano sui “cugini” europei. Un titolo per tutti, apparso sul quotidiano confindustriale, Sole 24 Ore: “Smentite le cassandre: l’Italia è più reattiva di Francia e Germania”. Il governo, naturalmente, non ha tardato ad intestarsi tale “vittoria”.

Ma per la gente che non si diletta a immergersi in tabelle e grafici, il termine “economia” significa soprattutto tenore di vita. Ora, non ci sono dubbi che una parte della popolazione ha continuato ad arricchirsi. Lo testimonia la continua crescita degli acquisti di beni di lusso, dalle calzature ai gioielli agli yacht, lo testimonia altresì il tutto pieno che registrano gli alberghi e i ristoranti delle località più “esclusive”. Ma per quanto questa minoranza conti politicamente e contribuisca in modo determinante, con il suo comprensibile ottimismo, a plasmare la cosiddetta “opinione pubblica”, si tratta pur sempre, appunto, di una minoranza.

Per chi voglia leggerli, però, sono a disposizione altri dati, altre cifre, che gettano una luce sulla situazione reale della maggioranza della popolazione, in modo particolare dei lavoratori, dei pensionati e dei disoccupati.

Prendiamo ad esempio un rapporto di Unimpresa, riportato anche dalle agenzie di stampa: vi si legge che nel 2022 l’area del “disagio sociale” è cresciuta e che le persone a rischio povertà in Italia sono 8,2 milioni. Diecimila in più rispetto al 2021. gli “working poor”, cioè i lavoratori con salari bassi o bassissimi rispetto alla media nazionale, sono ormai 6,5 milioni. Una ricerca dell’istituto Nomisma, basato su interviste a campione, mostra che il 13% delle famiglie ritiene il proprio reddito insufficiente per le necessità primarie, mentre il 43% valuta di essere in condizioni di affrontare soltanto i bisogni primari “in una sorta di equilibrio precario che potrebbe essere messo a rischio da un evento imprevisto anche di modesta portata”.

L’inflazione ha colpito duro. I dati sul risparmio rivelano che molte famiglie hanno dovuto “rompere il salvadanaio” anche soltanto per affrontare le spese ordinarie. Ed è un fenomeno che riguarda il 55% delle famiglie italiane.

Un quadro del genere comporterebbe almeno il tentativo di una lotta generalizzata dei lavoratori. Tanto più che nel nuovo “Decreto lavoro”, beffardamente approvato il primo maggio dal governo Meloni, sono contenute delle misure che peggioreranno ulteriormente le condizioni dei lavoratori. La liberalizzazione ulteriore del lavoro precario, estendendo l’uso dei voucher, abolendo i tetti percentuali di impiego dei lavoratori in somministrazione sul totale della forza lavoro aziendale e abolendo le causali obbligatorie per il rinnovo dei contratti a termine, è un ulteriore passo verso lo sgretolamento dell’unità della classe lavoratrice. Anche la sostituzione del reddito di cittadinanza con l’”Assegno di inclusione”, che lascerà più di 400mila famiglie povere senza alcuna tutela nel 2024, contribuisce a indebolire, con il ricatto della miseria più avvilente, il potere contrattuale della classe operaia.

Che cosa fanno Cgil, Cisl e Uil? Ben poco. Almeno ben poco di serio e di incisivo. La situazione richiederebbe di buttare giù cinque o sei rivendicazioni fondamentali, che interessano tutto il mondo del lavoro e che vadano nel senso della difesa del potere d’acquisto dei salari, del loro incremento generalizzato di fronte al continuo aumento dei prezzi, del contrasto alla disoccupazione e della precarietà, e su questi obiettivi buttarsi a capofitto e usando tutte le energie e tutta la forza che i lavoratori sono ancora in grado di esprimere.

In molti si sono domandati se una fascista a capo del governo significasse una rinascita del regime fascista a cento anni dalla Marcia su Roma. No, evidentemente, il quadro è del tutto diverso, almeno per il momento. Ma qualcosa della tradizione del fascismo c’è nella condotta del governo: il totale asservimento, anche formale, agli interessi dei grandi gruppi capitalistici nazionali e il disprezzo per le organizzazioni dei lavoratori, che la Meloni e i suoi hanno finto di “consultare” sul Decreto lavoro solo un giorno prima della sua approvazione. Nel sistema mussoliniano delle corporazioni, la retorica ufficiale parlava di superamento della lotta di classe e di armonizzazione degli interessi tra operai e industriali. La realtà era che i sindacati fascisti si limitavano a mettere una firma in calce alle decisioni che Mussolini, di concerto con la Confindustria e le grandi banche, aveva già preso.