Quando gli immigrati non provengono soltanto dai Paesi meno sviluppati, ma sono europei e anche italiani. Immigrazione, o meglio emigrazione, in Australia.
E’ una realtà poco conosciuta, ma che – non incidentalmente – ricalca modalità e metodi di sfruttamento comuni ovunque nel mondo. E’ il caso dell’Australia, dove i flussi migratori conosciuti comprendono anche i giovani dei Paesi a più alta industrializzazione, costretti comunque ad emigrare dalla crisi e dalla disoccupazione. Si tratta di manodopera giovane, in genere con meno di 31 anni, spesso laureata, un po’ come succede per gli immigrati di casa nostra provenienti in genere dai Paesi dell’Est europeo, ma spesso anche dall’Africa. Un’inchiesta del Corriere della Sera, pubblicata il 6 maggio scorso, getta luce su un fenomeno a cui difficilmente si presta attenzione, ma che forse non sarà così nuovo in futuro.
In cerca di un’alternativa, sarebbero stati oltre 145.000 nel giugno scorso i ragazzi emigrati in Australia con un visto temporaneo “Vacanza lavoro”, di cui 15.000 italiani. Il visto “Vacanza-lavoro” è un ingegnoso contratto-tagliola, messo in piedi per ovviare alla carenza di manodopera in agricoltura, che in realtà dà origine a una forma di sfruttamento particolarmente insidiosa, più propriamente di niente vacanza e molto lavoro. I giovani partono con la prospettiva di una specie di volontariato, che prevede di lavorare nelle “farm”, aziende agricole attive soprattutto nell’interno del Paese, che producono ortaggi, frutta, uva. Ma il vero obiettivo è il rinnovo del visto per un secondo anno supplementare, ottenibile sulla base di un documento che attesti che hanno lavorato per tre mesi nelle zone rurali dell’Australia: naturalmente è il datore di lavoro che rilascia il documento. Con questo sistema, il risultato è duplice: i giovani immigrati sono disponibili a un lavoro che i loro coetanei del posto non vogliono più fare, e inoltre – sulla base del ricatto ottenuto con il miraggio del visto – sono disponibili a farlo praticamente a tutte le condizioni. Anche gratuitamente, perché i tre mesi possono essere retribuiti anche solo con il semplice vitto e alloggio.
Quello che vediamo ogni giorno accettare dai lavoratori immigrati nel nostro Paese, riguarda con modalità molto simili gli emigrati dal nostro Paese, e le storie di sfruttamento si assomigliano tutte molto: datori di lavoro che pagano meno di quanto previsto dal contratto, altri che ufficialmente pagano tutto, ma si fanno restituire i soldi, altri che addirittura si fanno pagare in cambio di una firma sul documento. Le condizioni di lavoro, inoltre, sono quelle che definiremmo da terzo mondo: ci sono segnalazioni di molestie e abusi, perfino sessuali, e di orari e condizioni molto duri, al limite del sopportabile. La testimonianza di due ragazze italiane parla di lavoro dalle sette di sera alle sei di mattina, anche in caso di pioggia o freddo, senza potersi interrompere neanche per i bisogni fisiologici, a cui si deve provvedere sul posto.
La presidente del Comitato degli italiani all’estero di Brisbane, Mariangela Stagnitti, assicura che i giovani in genere subiscono questa situazione. “Quando mi chiedono cosa fare, io consiglio loro di non accettare quelle condizioni e di chiamare subito il Dipartimento per l’Immigrazione, ma i ragazzi non lo fanno perché hanno paura di rimetterci. Tanti mi dicono che ormai sono abituati; anche in Italia, quando riuscivano a lavorare, lo facevano spesso in nero e sottopagati. La verità è che questi giovani in Italia sono disoccupati, senza molte opzioni, per questo vengono a fare lavori che gli australiani non vogliono più fare.” Non è una descrizione molto diversa da quella che potremmo fare dei giovani africani o albanesi o rumeni che mettono piede nel nostro Paese in cerca di un futuro migliore. Nell’attuale sistema politico economico, niente ci mette al riparo da nessuna delle condizioni di sfruttamento e di sopraffazione, non escluse quelle estreme della miseria e dell’emigrazione.