Ancora alla fine di ottobre nessuno sapeva con certezza quale fosse la portata della cosiddetta “Legge di stabilità”, la manovra economica del governo Letta.
Nel frattempo, nonostante gli avventati annunci di una ripresa economica che sarebbe alle porte, il “contatore” dei disoccupati continua a girare. Questa è una certezza, così come è certo che girerà ancora nel 2014.
Un'altra certezza è che nessuno dei provvedimenti economici del governo darà una risposta alle più gravi emergenze sociali. Non sarà istituito nessun salario minimo legale, non sarà varato nessun provvedimento che obblighi le aziende a spartire il lavoro tra tutti i propri dipendenti a parità di trattamento salariale, non sarà varata nessuna legge che vieti i licenziamenti e nemmeno una che sottoponga a sequestro le imprese che, dopo aver fatto montagne di profitti ed aver approfittato di una spesa pubblica generosa, decidono di chiudere questo o quell'impianto per ristrutturare o delocalizzare. Nemmeno sarà avviato nessun serio programma di lavori pubblici per costruire o ristrutturare edifici scolastici, ospedali, case popolari. Oppure per contrastare il dissesto idrogeologico. Eppure, se la crisi la si guarda non dal punto di vista dei ricconi e degli speculatori di borsa, ma da quello della maggioranza della popolazione, sarebbero questi i provvedimenti che la gravità del momento impone.
Le risse che si susseguono dentro quello che era il PdL, gli scontri interni al PD, la scissione del piccolo partito di Mario Monti, appassionano i commentatori politici dei quotidiani e i “retroscenisti”. Ma per i lavoratori e per i ceti popolari non rappresentano niente. Soprattutto non rappresentano una scelta possibile.
Il vero nodo politico, il problema centrale per la classe lavoratrice e per i ceti popolari si trova nella struttura economica della società. Una borghesia di ricchi banchieri, di rentiers, di grandi industriali e di pagatissimi manager e superburocrati, forte del suo controllo su tutti i settori decisivi dell'economia, è ben decisa a non pagare niente delle conseguenze della crisi, cosa che del resto è avvenuta fino ad oggi. La crisi devono continuare a pagarla tutti gli altri e i governi di ogni colore sono serviti egregiamente per questo scopo.
Le fibrillazioni della politica, di cui va tanto di moda parlare, non riguardano in nessun modo la stabilità e la continuità del dominio capitalistico sulla società, per quanto sia chiaro che è da questo dominio che è scaturita la crisi.
Come degli arlecchini e degli stenterelli, i vari primi attori della scena politica, si agitano per servire al meglio questo sistema di potere. Le conseguenze sociali della crisi li pongono di fronte il compito quasi impossibile di assicurare il consenso sociale di massa da una parte e favorire il massimo sfruttamento dei lavoratori dall'altra. Di fronte a questa gigantesca pressione e ai compiti nuovi che ne scaturiscono, saltano tutte le vecchie macchine del consenso e si rincorrono nuovi modelli, si fabbricano nuovi miti o si cercano nuovi uomini-immagine per catturare o incanalare il malcontento in crescita esponenziale di gran parte delle classi e dei ceti sociali. Fra questi ci sono anche settori della piccola imprenditoria, il cui destino è segnato dalle leggi stesse dell'economia capitalistica, ma che sono stati per decenni la base di massa della stabilità politica borghese. Ora rischiano anche loro di sprofondare nella miseria.
Il bene della nazione, così spesso invocato, si riduce al far quadrato attorno ai privilegi della grande borghesia. Questi privilegi esigono un maggiore sfruttamento della classe operaia, anche attraverso il consolidamento di un esercito permanente di disoccupati, e un ulteriore taglio dello stato sociale.
Tutti, dal pregiudicato Berlusconi al suo ex delfino Alfano, da Letta a Renzi a Monti, tutti dicono che l'interesse nazionale esige la stabilità. Ma, in quanto esponenti diretti od ossequiosi maggiordomi del mondo del gran capitale, non possono far altro che favorire la stabilità della miseria.