Ai primi di settembre del 1920 inizia il grande movimento che sarà noto come “Occupazione delle fabbriche”. L’indicazione di occupare le fabbriche, da parte della Federazione Italiana degli Operai Metallurgici (FIOM), aderente alla Confederazione Generale del Lavoro (CGL) e del Sindacato metallurgici, di indirizzo sindacalista-rivoluzionario, segue una trattativa tirata avanti per settimane, nella quale i sindacati chiedevano aumenti salariali in grado di compensare almeno l’enorme aumento dei prezzi, trattativa culminata con una rottura da parte del padronato il 13 agosto. Sanciscono la rottura le parole provocatorie pronunciate dal rappresentante della Confindustria, l’avvocato Rotigliano, che in seguito aderirà al partito fascista: “Ogni discussione è inutile. Gli industriali sono contrari alla concessione di qualsiasi miglioramento. Da quando è finita la guerra essi hanno continuato a calar le brache. Ora basta e cominciamo da voi metallurgici”. I sindacati rispondono con l’ostruzionismo: gli operai, in ogni officina, devono attenersi strettamente ai regolamenti e non fare niente che non sia previsto nel loro mansionario; uno “sciopero bianco”, diremmo oggi.
Il furore degli industriali nei confronti degli operai allora aumenta, fino a organizzare una contromossa: la serrata, ovvero far trovare i cancelli chiusi agli operai che si recano a lavoro. La prima serrata avviene a Milano agli stabilimenti Romeo. Ma la mossa era prevista nelle stesse direttive riservate che la direzione della FIOM aveva inviato ai responsabili locali e alle prime serrate i lavoratori occuparono le fabbriche.
La rivoluzione che bussa alle porte
Erano gli anni immediatamente successivi alla fine della Prima guerra mondiale. Da poco è al governo, per la quinta volta nella sua carriera, Giolitti, un politico borghese che ha anche presieduto il ministero degli Interni. Un politico scaltro che ha già saputo misurarsi con il movimento operaio in periodi di scioperi e di proteste di piazza. Un uomo che ha sempre cercato di appoggiarsi sull’ala riformista del movimento socialista e del sindacato, senza per questo precludersi la possibilità di usare all’occorrenza fucili e baionette contro le ali più combattive del proletariato.
La paura della rivoluzione da parte delle classi dirigenti era un dato concreto della politica di quegli anni. C’era stata una rivoluzione socialista in Russia nel 1917, cioè nel corso della guerra. E la guerra, con i milioni di morti che aveva causato, con la miseria indotta nelle città dal razionamento e nelle campagne dallo spopolamento forzato di tante braccia giovani, aveva generato nelle masse proletarie più ostilità nei confronti dei governi e della grande borghesia che entusiasmi nazionalisti. “Fare come in Russia” era il ritornello che ci si ripeteva, nei caffè, nei capannelli che si formavano fuori dai negozi, nelle Case del popolo, nelle sezioni sindacali e in quelle socialiste, anche le più sperdute, fra lavoratori e disoccupati, ed era un annuncio di morte per la società capitalista. La Rivoluzione sembrava un mare gonfio le cui ondate avanzavano inarrestabili e quando anche si ritiravano era solo per annunciarne di nuove e più potenti.
Nel 1919 era nata a Mosca l’Internazionale comunista o Terza Internazionale. La sua forza di attrazione si esercitava anche sul Partito socialista italiano che infatti vi aderì. Ma l’adesione formale era ben diversa dall’assimilazione dei nuovi princìpi politici dell’Internazionale, ricavati in gran parte dall’esperienza dei bolscevichi, cioè del partito che, per la prima volta, non solo aveva parlato per anni agli operai di rivoluzione, ma ne aveva diretta una e ora era al potere.
All’interno del partito socialista, già diviso al proprio interno tra una maggioranza massimalista e una minoranza di riformisti, prese sempre più vigore una corrente più decisamente rivoluzionaria. Ne facevano parte Gramsci a Torino, Fortichiari a Milano e Bordiga a Napoli. Tutti giovani ma già con un piccolo capitale di lotte e di esperienze politiche. Sarà questa corrente che, pochi mesi dopo la conclusione dell’occupazione delle fabbriche, fonderà il Partito Comunista d’Italia, sezione italiana dell’Internazionale comunista.
I sindacati più influenti nel corso dell’occupazione che, come il Partito socialista, avevano visto moltiplicare vertiginosamente i propri iscritti nel clima sociale del dopoguerra, erano in gran parte diretti dai riformisti. Era il caso della CGL, di cui faceva parte la FIOM. In alcune località, come nel Ponente genovese, a La Spezia, a Piombino o Ancona, i sindacalisti-rivoluzionari dell’Unione Sindacale Italiana esercitavano un’influenza preponderante. Tra di essi, gli anarchici erano politicamente egemoni.
La grande borghesia italiana era disorientata, e mentre cercava di mantenere le posizioni economiche acquisite nel corso della guerra, sentiva franare il terreno sotto i piedi. Non tutto il fronte degli industriali vedeva le cose come Giolitti e ci fu chi da subito perorò la linea dura contro le continue rivendicazioni di operai e braccianti. Quando iniziò l’occupazione, le squadre fasciste avevano già colpito in diversi centri ma erano soprattutto le guardie regie e i carabinieri ad essere utilizzati per stroncare con la violenza e gli arresti gli scioperi e le manifestazioni. Ma in questo “Biennio rosso” 1919-1920 molto spesso le forze di polizia e l’esercito scatenati contro operai e braccianti trovavano pane per i loro denti. Ogni episodio di lotta, spesso al limite dell’insurrezione, e qualche volta oltre questo limite, come nel caso della rivolta di Ancona, dimostrava che ai lavoratori mancava l’organizzazione, non certo la volontà di battersi.
L’occupazione delle fabbriche
Così Mario Montagnana, un testimone e un protagonista dei giorni dell’occupazione a Torino, descrive il sentimento degli operai all’inizio della lotta: “Quando ai primi di settembre del 1920 il Comitato Centrale della F.I.O.M. – non avendo potuto ottenere a mezzo di trattative un miglioramento dei salari che compensasse l’aumento del costo della vita – diede l’ordine di occupare, in tutta Italia, le officine metallurgiche, scacciandone i padroni, gli operai pensarono ovunque che l’occupazione sarebbe stata definitiva, che i capitalisti non avrebbero mai più rimesso piede negli stabilimenti…”
Il punto più forte dell’occupazione furono le fabbriche di Torino. La capitale piemontese era allora una specie di Detroit italiana, un laboratorio dell’industria più moderna e gli operai metallurgici costituivano la maggioranza della popolazione attiva. Questa città aveva già conosciuto un movimento insurrezionale nel 1917, represso nel sangue dall’esercito e dalle guardie regie. Ma lo spirito rivoluzionario degli operai torinesi non si era fiaccato. La sezione torinese della FIOM era diretta da socialisti che già si definivano comunisti e il suo segretario era un anarchico: Pietro Ferrero, trucidato dai fascisti due anni dopo.
Per questo, a Torino più che altrove, l’occupazione prese un indirizzo rivoluzionario e si sperimentò la gestione diretta della produzione da parte degli operai, con collegamenti da fabbrica a fabbrica per la fornitura di materie prime, combustibili e semilavorati. Al rifornimento delle fabbriche occupate contribuirono largamente i ferrovieri. Si dimostrava così che la produzione può essere mandata avanti dagli stessi lavoratori e che la borghesia aveva solo un ruolo parassitario nell’economia. In molte fabbriche fu anche istituita una Guardia rossa.
Ma gli operai fornirono esempi di coscienza rivoluzionaria anche in molti altri centri d’Italia, mentre nelle campagne, per quanto prevalentemente in modo scollegato alle città, proseguivano scioperi lunghissimi e occupazioni delle terre.
La rivoluzione “messa ai voti”
Con la grande maggioranza delle aziende metallurgiche occupate, con la capitale industriale, Torino, il cui apparato produttivo è nelle mani degli operai, con le campagne in subbuglio, l’Italia è sull’orlo della rivoluzione. Lo riconoscerà lo stesso Giolitti nelle sue memorie.
La direzione del Partito socialista fa quello che aveva fatto in ogni episodio importante delle lotte proletarie: proclami infuocati che rinviano sempre a un “domani” non meglio identificato l’azione rivoluzionaria vera e propria. E intanto, nel presente, sabota di fatto l’iniziativa operaia. Giolitti, nonostante le pressioni di un gran numero di industriali, punta le sue carte non tanto sulla repressione del movimento, che a quel momento sarebbe stata pressoché impossibile senza scatenare una guerra civile, ma sulla stanchezza dei lavoratori in lotta. Altra carta che lo statista gioca con sicurezza è lo spirito di “collaborazione” dei dirigenti riformisti del sindacato.
In un editoriale apparso il 2 settembre sull’Ordine Nuovo, Gramsci dimostrava di cogliere perfettamente il gioco di Giolitti. Il capo del governo, scrive, vuole che il proletariato si sfianchi “fino a quando non cada da sé sulle ginocchia”. Nello stesso articolo sostiene la necessità di creare “una forza armata fedele e bene distribuita per tutte le evenienze e tutti i bisogni”. Tutte cose vere, che però rimangono in gran parte parole. Il coordinamento a livello nazionale e l’indirizzo verso uno scopo comune incontreranno enormi difficoltà. Quando si riunisce a Milano il Consiglio nazionale della CGL, il 10 settembre, il movimento delle occupazioni è al suo apice. La direzione del PSI vota un ordine del giorno nel quale rivendica “la responsabilità e la direzione del movimento estendendolo a tutto il paese e all’intera massa proletaria”. Ma alla riunione, incredibilmente, manca l’organismo direttivo socialista più largo, il Consiglio nazionale del partito, con l’assurda motivazione che “non si è potuto convocare a tempo”. In questo modo, quelli presenti a Milano, sono in prevalenza, funzionari sindacali e segretari di Camere del lavoro, anche di paesi molto periferici. E a questo insieme eterogeneo di sindacalisti è affidato di fatto il giudizio sulle prospettive di un movimento che potrebbe diventare l’inizio di una rivoluzione. In separata sede il Consiglio nazionale della CGL vota un ordine del giorno opposto a quello della direzione socialista. Vi si rivendica la direzione del movimento e si fissa lo scopo della lotta nel “controllo sindacale delle aziende”, primo passo, si argomenta, verso una “gestione collettiva” e verso la “socializzazione”. Oltre a questo, non si appoggia l’estensione delle occupazioni ad altre categorie ma si incoraggia la solidarietà economica verso i metallurgici da parte degli altri lavoratori. La sera stessa si riuniscono i due organismi direttivi, confederale e socialista. I dirigenti riformisti della CGL, D’Aragona, Dugoni, Baldesi, mettono abilmente la direzione del PSI con le spalle al muro. Dice D’Aragona: “Voi credete che questo sia il momento per far nascere un atto rivoluzionario, ebbene, assumetevi la responsabilità. Noi che non ci sentiamo di assumere questa responsabilità di gettare il proletariato al suicidio, vi diciamo che ci ritiriamo e diamo le nostre dimissioni. Sentiamo che in questo momento è doveroso il sacrificio delle nostre persone; prendete voi la direzione di tutto il movimento”.
Evidentemente, i dirigenti della CGL sapevano molto bene di che pasta erano fatti i dirigenti massimalisti. Così, la decisione sulle due mozioni viene messa ai voti. La votazione avviene l’11 settembre. Come era costume allora, ogni delegato esprime una quantità di voti uguale al numero di iscritti del quale è espressione nelle strutture del partito o del sindacato
La mozione socialista risulta minoritaria e si afferma, con 591.245 voti contro 409.569 e 93.623 astenuti, la mozione della direzione CGL.
Oltre alla bestialità di accettare che la rivoluzione fosse “messa ai voti”, come subito fu detto e scritto, anche nella stampa borghese, la maniera in cui furono organizzati questi ulteriori pretesi “Stati generali” del proletariato risentiva di tutto il formalismo burocratico della tradizione riformista, particolarmente assurdo in un clima prerivoluzionario. Notevole che non fossero invitati i rappresentanti dell’USI e che il Sindacato Ferrovieri, quello dei marittimi e quello dei portuali non avessero diritto di voto.
Molti anni dopo, Angelo Tasca, che era stato uno dei leader del socialismo torinese e, in seguito, tra i fondatori del Partito comunista, scrisse: “La Direzione del partito ha perduto dei mesi interi a predicare la rivoluzione, non ha niente previsto, niente preparato: quando i voti di Milano danno la maggioranza alla tesi confederale, i dirigenti del partito tirano un sospiro di sollievo. Liberati adesso da ogni responsabilità, possono gridare a piena gola al “tradimento” della CGL; hanno così qualche cosa da offrire alle masse che hanno abbandonato al momento decisivo, felici che un tale epilogo permetta loro di “salvare la faccia”.
In ogni caso, per quanto la risoluzione votata a maggioranza vada di fatto nel senso della liquidazione del movimento, o almeno del suo carattere rivoluzionario, nessuno ha ancora la certezza, come sottolinea lo storico Paolo Spriano, che l’occasione rivoluzionaria sia definitivamente perduta, “non l’hanno i riformisti, non l’ha la borghesia, non l’hanno le masse occupanti”.
Verso la fine
Il 14 settembre c’è un primo incontro tra CGL, governo e Confindustria e un primo accordo di massima sugli aumenti salariali e sul “controllo sindacale” che dovrà poi essere, negli impegni presi da Giolitti, regolato da una legge.
Il 19 siedono di nuovo al tavolo delle trattative, convocate dal governo, la Confederazione del lavoro e la Confindustria. Giolitti fa sedere al suo fianco D’Aragona. I contenuti dell’accordo, per quanto questi vengano presentati poi come una vittoria senza precedenti dei lavoratori, non hanno a questo punto molta importanza. Quello che conta è che il movimento sia fermato, che le sue avanguardie siano isolate e che, attraverso questa manovra, i rapporti di forza tornino favorevoli al padronato e al governo.
Per quanto riguarda il “controllo sindacale”, Giolitti firma un decreto-legge alla fine dell’incontro che istituisce una commissione paritetica di 12 membri con l’incarico di formulare un testo di legge. Successivamente tutto svanirà nel nulla.
L’intero accordo sarà sottoposto a un referendum tra i metallurgici.
L’occupazione durerà ancora una settimana, ma in sostanza si è messa la parola fine.
I settori d’avanguardia, quelli che hanno trainato il movimento, sono contrari all’accordo e alla fine dell’occupazione. Ma la massa è sfiancata ed è spinta anche dalla mancanza di mezzi economici ad accettare un accordo che sembra ora il male minore.
Al referendum, che si tiene il 24 settembre, partecipa una minoranza dei potenziali elettori. L’accordo riceve 127.904 sì e 44.531 no. In alcune situazioni dove gli anarchici hanno maggiore presa le elezioni vengono apertamente boicottate e la consultazione non può svolgersi, come alle acciaierie di Campi, a Genova.
La sconfitta aprirà la strada alle scorribande delle squadre fasciste e, in seguito, all’avvento del fascismo al potere.
Le lezioni di una lotta sconfitta
Al III Congresso dell’Internazionale Comunista, nell’estate del 1921, Trotsky sintetizza gli insegnamenti politici dell’Occupazione: “Il fatto principale è la grande crisi del settembre dell’anno passato che ha creato questa situazione. Se si esamina anche da lontano la situazione politica, si ha l’impressione, anzi la certezza, che il proletariato italiano ha preso, nel corso degli anni che hanno seguito la guerra, un orientamento nettamente rivoluzionario. Quello che diceva l’Avanti!, quello che dicevano gli oratori del Partito socialista, era compreso dalla grande massa operaia come un appello alla rivoluzione proletaria; questa propaganda è penetrata nella coscienza, nella volontà della classe operaia e l’azione del settembre ne è stata la prova.
Se si giudica il Partito politicamente, bisogna supporre – perché è la sola spiegazione che se ne possa dare – che il Partito socialista italiano falsando la sua politica verbalmente rivoluzionaria, non ha mai tenuto conto delle conseguenze che tale politica poteva avere. Perché tutti sanno che l’organizzazione che fu la più spaventata e la più paralizzata dagli avvenimenti del settembre non era altra che il Partito socialista che li aveva preparati. Ed ecco, tali fatti ci provano che l’organizzazione italiana era cattiva, perché il Partito non è soltanto una corrente d’idee, uno scopo, un programma, è anche una macchina, un’organizzazione che crea con la sua opera costante le garanzie della vittoria.
Il Partito Comunista d’Italia nasceva pochi mesi dopo la sconfitta, a gennaio 1921. Trotsky, al Congresso dell’Internazionale, si rivolge ai rappresentanti massimalisti ancora indecisi, come Serrati, che non avevano abbandonato il PSI. Ma è necessario riconoscere che anche la componente più coerentemente comunista che darà vita al PCd’I, non riuscì a svolgere il ruolo di direzione rivoluzionaria che le simpatie acquisite nella parte più cosciente dl proletariato le avrebbero consentito. Emerge chiara la subordinazione alla “disciplina” che la direzione massimalista del PSI riuscì a imporre anche ai futuri dirigenti comunisti, l’ossequio a un formalismo, fatto di “rispetto” di gerarchie e di procedure che non aveva nessun senso in una situazione pre-rivoluzionaria. Di fronte a questa carenza fondamentale, assume un’importanza minima la polemica dottrinaria, sviluppatasi allora tra gli esponenti del futuro Partito Comunista, sul fatto che i consigli di fabbrica potessero essere o meno i futuri “soviet”.
Una discussione che non coglieva quali fossero i punti centrali di un movimento proletario alle soglie dell’insurrezione. Per citarne qualcuno: forgiare una direzione comunista indipendente dalla disciplina del PSI, sviluppare di conseguenza una propria iniziativa e una propria tattica, non sottilizzare sulle forme organizzative che avrebbero potuto prendere dei “soviet” in Italia, appoggiarsi su tutti i settori più combattivi della classe operaia cominciando dagli anarchici e dai sindacalisti-rivoluzionari.
Non si tratta di ergersi a maestri di una generazione eroica di militanti rivoluzionari, si tratta di far propri i giudizi critici e le valutazioni che seppero dare in primo luogo i maggiori esponenti del movimento comunista, Trotsky e Lenin in testa, sulla base dell’esperienza di una rivoluzione non più soltanto evocata ma fatta.