Secondo squinzi lavoriamo poco

Lo hanno chiamato “secondo spread”, e stando a Confindustria impedirebbe la fantomatica “ripresa”. Anche la bassa produttività del sistema industriale italiano viene messa a carico dei lavoratori. Dopo aver cercato per anni i margini di profitto soltanto nella compressione dei salari, distribuendo lauti dividendi agli azionisti e speculando con disinvoltura sui mercati finanziari, ora ci presentano anche questo conto. Dovremmo proprio pagarlo?


Squinzi dice che lavoriamo poco. Il sistema italiano soffre di bassa produttività. E non perché la dimensione dell’industria italiana è affetta da nanismo, per scarsi investimenti in ricerca e nuove tecnologie, o perché è stato più redditizio investire nelle speculazioni finanziarie che nella produzione industriale. Comunque, non sono questi gli argomenti in discussione. Fosse anche per tutto ciò, la soluzione resta una sola: dobbiamo lavorare più ore per essere più concorrenziali sui mercati, per riguadagnare i 30 punti di competitività che l’Italia ha perso nei confronti della Germania. Per recuperarne almeno 10, non c’è altra soluzione che lavorare di più, modificando “l’organizzazione del lavoro” e sfoltendo “tutte quelle norme, contrattuali e di legge, a cominciare dal sistema dei permessi, che riducono l’orario effettivo di lavoro”. (La Repubblica, 3.10.12).

Una battaglia che l’industriale della Mapei, da pochi mesi nuovo Presidente di Confindustria, conduce fraternamente appoggiato dal sottosegretario all’Economia Polillo - il quale, come abbiamo visto questa estate, caldeggia per i lavoratori una settimana di ferie in meno. Per di più, ovviamente è proprio il presidente del Consiglio che ha chiesto alle parti sociali l’ennesimo accordo in perdita, aprendo un “tavolo per la competitività” per ridurre questo “secondo spread”, che inciderebbe in maniera negativa sulle possibilità di crescita dell’economia italiana. Come coordinatore di questo tavolo, Monti ha auspicato un modello contrattuale nel quale si colleghino gli aumenti contrattuali esclusivamente alla crescita della produttività, quindi sostanzialmente definiti nelle aziende e non più da un contratto nazionale.

Al coro ovviamente non si sottrae nemmeno lo schieramento cosiddetto “opposto”, e non a caso il quotidiano più vicino al Pd, La Repubblica, si è reso fautore di una assidua campagna sui temi della produttività, perfettamente in linea con le tesi governative e sostenuta anche dagli argomenti di Tito Boeri, un economista che frequenta da vicino le feste del Pd e sa come appellarsi al senso di responsabilità. “Dobbiamo contare sulle nostre (sic!!) forze[…] Dobbiamo renderci più competitivi […] Tre sono le strade per raggiungere questo obiettivo. La prima è quella di una svalutazione fiscale […] La seconda è quella degli aumenti di produttività […] La terza strada è quella che passa attraverso la moderazione salariale ottenuta attraverso una revisione delle regole della contrattazione. […] Si è perso troppo tempo e bisogna essere concreti. Si discute di abolire la tutela automatica del potere d’acquisto dei salari. […] E’ possibile che, d’ora in poi, i contratti nazionali possano comportare riduzioni in termini reali delle retribuzioni […] Nel momento in cui si abolisse l’aggiustamento in base all’Ipca, bisognerebbe allora introdurre delle clausole che leghino automaticamente i salari all’andamento della produttività. (La Repubblica, 19.9.12)

La ricetta è bell’e fatta. Da una parte, più ore di lavoro e più sfruttamento. Dall’altra aumenti non più legati al costo della vita, ma solo all’aumento della produttività, che non dipende dai lavoratori, ma dalla natura degli impianti produttivi. Un capolavoro che Confindustria ha ben presente come obiettivo, se la linea emersa dalla riunione di fine settembre della Giunta dell’Associazione è stata quella del congelamento di tutti i contratti nazionali, in vista di un accordo sulla competitività che dovrebbe farla finita una volta per tutte con il contratto nazionale, e aprire la strada al contratto aziendale, o meglio – in una situazione come quella attuale – all’arbitrio aziendale.

Che si pensi di spremere ulteriormente una classe operaia già dissanguata, può sembrare un’assurdità e una contraddizione nei termini, in una situazione di salari irrisori e di mercato interno in agonia. Che poi lo si faccia nel bel mezzo di una crisi mondiale, quando il ricorso alla cassa integrazione da parte delle aziende è imponente, e casomai la produzione diminuisce, è una barbarie. Del resto, quanto alle ore lavorate, già oggi le ore lavorate da un lavoratore italiano sono 200 sopra la media europea e 363 sopra quelle di un lavoratore tedesco, che invece è molto più produttivo.

Per contro, allargando lo sguardo oltre l’Europa, i lavoratori messicani sono quelli con orari più lunghi, ma gli ultimi per produttività. Nessuno sano di mente potrebbe pensare di risolvere i problemi del sistema industriale semplicemente aumentando le ore di lavoro. Nessuno in buona fede potrebbe pensare di legare gli aumenti alla produttività, quando la produzione diminuisce perché non si sa a chi vendere il prodotto. Che ci sia chi possa permettersi di farlo, senza incontrare una ribellione dura e immediata e una resistenza massiccia, ci dà la misura di quanto sia ancora lunga la strada per recuperare una coscienza di classe nel nostro Paese.

Aemme