È chiaro a tutti, ormai, che ciò che accade nel mondo ha un ripercussione più o meno immediata sulla vita di ogni singola popolazione nazionale.
Quale quadro ci si presenta davanti, dunque, nelle relazioni internazionali? Quello di un rimescolamento in corso nei rapporti di forza reciproci tra le varie potenze senza che nessuna di queste, da sola o coalizzata, abbia ancora la possibilità di stabilire un ordine internazionale diverso da quello a dominio americano.
Spinta dalla crisi, la concorrenza tra gruppi capitalistici nazionali si fa più acuta. Nel suo Programma socialista, circa 150 anni fa, Karl Kautsky, dirigente socialista tedesco, a quel momento ancora marxista, scriveva che il modo di produzione capitalistico da vita alle più strane contraddizioni, infatti “il commercio ha bisogno di pace, ma la concorrenza crea la guerra...più il bisogno di pace è forte, più si avvicina la minaccia di guerra. Queste contraddizioni, assurde in apparenza, corrispondono perfettamente al carattere del modo di produzione capitalistico”.
Oggi questa combinazione di tensioni economiche e diplomatiche e le varie guerre che si stanno combattendo vicino ai confini dell’Unione europea, in Ucraina e in Medio Oriente, alimentano la corsa al riarmo. Su un altro piano, anche l’evocazione di una minaccia cinese in agguato, in senso sia economico che militare, fornisce un sostegno ai fautori del riarmo. Ecco quindi che la “necessità di armarsi”, naturalmente solo per “difendersi”, è diventata un ritornello che si canta in tutti i paesi, compresi quelli europei. Dai testi semisconosciuti degli Stati maggiori, lo scenario di guerra è rapidamente passato al discorso pubblico. Tutti i partiti si adeguano e gli opinionisti delle grandi testate giornalistiche sono all’avanguardia.
Per esempio, Ernesto Galli Della Loggia ha scritto sul Corriere della sera del 16 gennaio scorso: “Per circa 70 anni – un tempo che con il ritmo attuale degli eventi può considerarsi lunghissimo – le democrazie europee continentali nate (o rinate) dopo la fine della Seconda guerra mondiale hanno goduto di un privilegio straordinario. Il privilegio di poter rinunciare tranquillamente alle spese militari. Per capire di cosa stiamo parlando bisogna pensare che nel periodo immediatamente precedente, cioè negli anni ‘20-’30 del Novecento, l’entità delle spese suddette ammontava mediamente al 10-15 per cento delle uscite nei bilanci dei Paesi del nostro continente. Dal 1945 in poi, invece, tranne il caso della Francia, questa voce è praticamente scomparsa (l’Italia spende ancora oggi meno dell’1 per cento del proprio bilancio)”. Gli Stati Uniti, continua l’editorialista, non sarannopiù in grado di offrirci la loro protezione. Dunque, i paesi europei devono attrezzarsi.
Ma, avverte l’editorialista, “è soprattutto sul versante dell’opinione pubblica che molto probabilmente il nuovo scenario politico-militare mondiale e quindi la situazione dell’Italia rischiano di creare le maggiori difficoltà ad essere compresi ed accettati”. La prevalenze per lungo tempo della cultura cattolica e di quella comunista e la lunga e incessante propaganda pacifista della sinistra hanno, prosegue, in qualche modo infiacchito l’opinione pubblica. La conclusione sconsolata è che “alla maggioranza degli italiani l’antico adagio “se vuoi la pace prepara la guerra” appare semplicemente come uno slogan da guerrafondai”. Per fortuna, vorremmo aggiungere!
Il compito di far digerire al pubblico il nuovo orientamento militarista se lo sono assunto i personaggi del giornalismo e dell’intellighentsia borghese, come sempre è avvenuto nella storia, ma al di là delle considerazioni generali, questo articolo ha una sua importanza particolare: sul giornale più vecchio e “prestigioso” della borghesia italiana, un intellettuale “di sinistra” pone sul tavolo praticamente tutti i problemi principali che dovrà affrontare la grande borghesia e il governo, assieme a tutta la “classe politica” per addomesticare la popolazione facendone uno strumento per macellare e farsi macellare.
Prima che dal diluvio delle cartoline-precetto, indirizzate ai loro figli più giovani, i popoli sono sempre stati investiti dalla martellante, varia, elaborata e capillare propaganda dei governi e dei loro reggicoda per presentare la guerra come inevitabile, come necessaria per “difendere la Patria”, per difendere i nostri “valori democratici”, e così via.
La resistenza a questa prevedibile, soverchiante pressione propagandistica potrà prendere corpo e acquisire forza solo se, da un generico pacifismo, i nemici della guerra si sposteranno sul terreno dell’internazionalismo proletario, animati dalla convinzione che, l’unico vero nemico è il capitalismo, con i suoi apparati burocratici e militari, con le sue classi possidenti, disposte ad organizzare qualsiasi strage su larga scala per mantenere le proprie condizioni di privilegio. Questo sistema, questi gruppi e classi sociali sono loro i soli responsabili di tutte le guerre. Al vecchio motto di tutte le classi sfruttatrici, “se vuoi la pace prepara la guerra”, bisogna opporre quello delle classi sfruttate e degli oppressi di tutto il mondo: “se vuoi la pace prepara la rivoluzione”.