Conclusa dopo 15 mesi la durissima vertenza INNSE. Ancora una volta i lavoratori hanno dimostrato che non ci sono scorciatoie, non ci sono sconti, non ci sono alternative. Bisogna passare attraverso la lotta.
Ci è voluto più di un anno, ma i 49 lavoratori INNSE, che hanno difeso la loro fabbrica senza mollare mai, con un coraggio e una determinazione che tutti hanno dovuto riconoscere, alla fine hanno vinto. La loro fabbrica non chiuderà, tutti e 49 dipendenti verranno riassunti, il progetto di speculazione sull’area è stato bloccato. Dunque non ci sono conclusioni già scontate fin dall’inizio, non ci sono decisioni irrevocabili, non ci sono leggi granitiche dell’economia che non si possano scalfire. Esistono dei rapporti di forza, che possono essere modificati solo con l’organizzazione e lotta, con l’unione dei lavoratori. Che non si tratti di semplici slogan o parole ormai vuote di significato, lo dimostrano semplicemente i fatti: la lotta non è sempre garanzia di vittoria, ma è garantito che senza lotta non ci saranno mai vittorie. Non è detto che per ottenere un risultato non si debba ricorrere a tutti gli strumenti; ma il tentativo di coinvolgere il notabile, il politico o l’amministratore di turno non potrà mai sostituire l’assunzione delle responsabilità in prima persona, e soprattutto non sostituirà mai la fatica, l’impegno, e quello che costa una lotta in termini di sforzi e di sacrifici. Decenni di lotte operaie ci hanno insegnato, senza possibilità di dubbio, che la lotta costa molto, ma che solo la lotta paga.
La vicenda INNSE, come ogni altra lotta condotta e portata a termine positivamente dai lavoratori, ha molto da insegnarci. I lavoratori INNSE sono partiti nel maggio 2008 da un telegramma che dichiarava l’apertura della procedura di mobilità e la cessazione immediata dell’attività lavorativa, senza convocazione della RSU e senza altri preavvisi. Il proprietario, Silvano Genta, si era accaparrato la fabbrica dopo il fallimento del precedente proprietario. Nella trattativa per l’acquisto gli fa da padrino il leghista Roberto Castelli, e il prezzo è stracciato: 700.000 euro, il resto lo paga lo Stato, grazie alla Legge Prodi sulle aziende in crisi. Sull’area ci sono gli appetiti degli speculatori, in vista di Milano 2015, e Genta fiuta l’affare: non ha nessuna intenzione di far funzionare lo stabilimento, vuole solo realizzare un bell’utile vendendo a pezzi i macchinari, mentre la Aedes, proprietaria del terreno, pensa già a un probabile cambio di destinazione d’uso dell’area, con affari annessi e connessi.
Ma gli operai della INNSE non si rassegnano a elemosinare l’attenzione sul loro caso, reagiscono con forza e decidono autonomamente di continuare la produzione in autogestione: del resto è un fatto che per produrre non è necessario un capitalista proprietario, servono tecnici e maestranze. Il 25 agosto 2008 Genta formalizza i licenziamenti, e si avviano le procedure di mobilità; il 17 settembre la fabbrica è sgomberata dalla forza pubblica che la mette sotto sequestro, mentre alcuni operai riescono a occupare alcune stanze. Viene istituito un presidio davanti alla fabbrica, che non è mai stato smantellato e ha ricevuto l’apporto di altri lavoratori, studenti, centri sociali. Più volte nei mesi successivi il proprietario tenta colpi di mano per portare via i macchinari. A gennaio si presenta ai cancelli con otto TIR, pronto a smontare gli impianti. Trova ad accoglierlo non solo i 49 operai della INNSE, ma più di 500 persone che fermano i TIR due chilometri prima.
Il 2 agosto 2009 polizia e carabinieri sgomberano l’occupazione. Siamo all’epilogo, ma gli operai non stanno a guardare e occupano la tangenziale, con la solidarietà di altri lavoratori e studenti. Due giorni dopo quattro operai e un funzionario della FIOM riescono a salire su una gru all’interno dello stabilimento, e dichiarano che non scenderanno di lì senza garanzie sul futuro della fabbrica; non è questione di disperazione, è una scelta razionale e perfettamente consapevole. Non hanno altro modo per impedire lo smontaggio dei macchinari. Fuori il presidio continua e cresce, nonostante il caldo e il ferragosto prossimo. La forza pubblica è costretta a fermare gli operai inviati a smontare gli impianti, il caso ormai ha rilevanza nazionale e si può seguire ogni sera sui tiggì della TV di Stato. Intanto compaiono i primi possibili compratori, iniziano le trattative. Genta resiste, se non può portar via le macchine vuole i soldi, 6,3 milioni di euro. Gli operai ipotizzano una soluzione “alla francese”: “Rischia di far saltare tutto, ma se l’accordo non va in porto siamo in grado di andarlo a prendere quando non è protetto”. Alla fine dovrà accontentarsi – si fa per dire – di 3 milioni e 150 mila euro. Nella notte del 12 agosto si concludono le trattative, e l’azienda viene ceduta al gruppo Camozzi, che assicura il mantenimento dell’occupazione e le intenzioni di rilancio dell’azienda.
L’apparente paradosso è un patrimonio industriale salvato dai lavoratori, mentre il sistema del capitale avrebbe distrutto con i suoi meccanismi un bene comune, che è una ricchezza prodotta dalle capacità e dal lavoro umano.
Ora tutti sono pronti a dissertare sulle forme di lotta, desuete e non, sull’efficacia degli scioperi, etc. La verità è semplicemente che bisogna adeguare le forme di lotta alle situazioni date. C’è chi è pronto a sopravvalutare il ruolo dei media, a sostenere che se troppi fanno “come alla INNSE” non ci sarà più attenzione mediatica e le lotte diventeranno inutili. Tutti questi esperti sono gli stessi che magari prevedevano l’inefficacia della resistenza alla INNSE, che consigliavano pensionamenti e ammortizzatori sociali per i lavoratori. La verità è che davvero devono essere i lavoratori a valutare e a decidere, loro a sostenere le lotte e a non dare per scontata nessuna sconfitta. Come ha dichiarato scendendo dalla gru uno dei lavoratori INNSE: “Se si alza la testa si vede l’orizzonte, se si abbassa non si vede niente”.