Oltre i limiti del precariato: tra vouchers e contratti di call center, si può fare di tutto. Per questi ultimi non è molto lontano un tracollo che potrebbe mettere a rischio dai 70 agli 80mila posti di lavoro, e non si tratta soltanto di studenti o neolaureati che provano ad arrotondare le entrate.
Come è già avvenuto per i Paesi anglosassoni, segnatamente per gli Stati Uniti, le imprese hanno fiutato nuove e più ampie praterie di sfruttamento, nelle quali scorrazzare a piacere con l’obiettivo di ingrassare a dismisura. Così, mentre ai call centers americani rispondono ormai da anni voci lontane, parlanti perfettamente inglese, dall’India, dal Pakistan, dal Bangladesh, anche più comodamente le nostre imprese del settore stanno traslocando al di là dell’Adriatico, prendendo possesso di interi palazzoni nel centro di Tirana, in cui lavorano legioni di centralinisti parlanti più o meno bene italiano, comunque perfettamente in grado di farsi capire.
La vicenda Almaviva non è che la classica punta dell’iceberg: a settembre ha annunciato esuberi per 2500 lavoratori tra Roma e Napoli, lamentando crisi del settore e contrazione dei ricavi. Ma molte altre aziende in sub-appalto di piccole e medie dimensioni hanno già dovuto chiudere i battenti, in molte regioni d’Italia. Per non parlare delle multinazionali: soltanto un paio d’anni fa la francese Teleperformance si era trasferita armi e bagagli da Taranto in Albania, creando un buco di 3000 posti lavoro in una zona già massacrata dalla disoccupazione. E, benché non si tratti certo di posti di lavoro privilegiati, purtroppo molte famiglie sono costrette a vivere contando su di essi.
A quali condizioni? Una recente intervista a un centralinista cinquantaquattrenne di Catania, con famiglia e figlio, comparsa sul Corriere della Sera del 21 ottobre scorso, ne traccia brevemente le linee: si tratta in questo caso di un cosiddetto “outbound”, cioè chi chiama per proporre contratti di utenze o merci varie, mentre chi risponde per ascoltare e risolvere i reclami dicesi “inbound”. Lo stipendio fisso ammonta a 5,60 euro l’ora ( ma le aziende in sub-appalto offrono anche 3 euro l’ora) più un gettone per ogni contratto appioppato; le liste da chiamare le fornisce il committente, ma se non sono precise, ad esempio se comprendono nominativi che hanno già un contratto con la ditta in questione, o comunque nominativi che non fanno capo al bacino di utenza appropriato, i fallimenti sono massimi e i guadagni del centralinista toccano il fondo. I centralinisti “outbound” inoltre hanno contratti co.co.co., il che significa nessun orario fisso, nessuno stipendio fisso, niente ferie o malattia – o meglio, pochissimo, perché collegati alla gestione separata dell’INPS, che a bassi versamenti risponde con basse coperture. Il contratto scade ogni mese e ogni mese potrebbe essere rinnovato o no. Il risultato sono salari che di rado superano i 1.000 euro, più spesso non li sfiorano nemmeno.
Cionostante, i contratti che una ditta di call center stipula con i clienti committenti – che spesso sono Pubbliche Amministrazioni o società partecipate – sono al massimo ribasso, e anche se i salari finiscono al di sotto dei livelli contrattuali di retribuzione, non basta più nemmeno il trasferimento in qualche sperduta provincia meridionale assetata di posti di lavoro. E allora bisogna traghettare l’Adriatico per trovare lavoratori disponibili a lavorare per meno ancora, 300 euro, al massimo 500 euro al mese. E in una situazione del tutto diversa: per effetto del diverso potere d’acquisto tra i due Paesi, il call center è considerato un lavoro ben pagato, uno dei lavori più richiesti in Albania.
Una legge del 2012 funziona da argine di carta all’esodo dei call center, disponendo per tutti gli operatori di mantenere “una sede in Italia per rispondere alle chiamate della clientela (“inbound”) che deve poter scegliere con chi interloquire” (Corriere Economia, 29.10.16). Ma non ci sono barriere per la ricerca dei profitti…
Come giustamente si interroga un articolo apparso sul periodico “Internazionale” del 30.10.16, sarebbe necessario ripartire da capo.“Come far parlare tra loro i lavoratori delle due sponde dell’Adriatico? E’possibile pensare a una strategia sindacale e politica, che includa i diritti e le richieste di entrambe le parti? E’ possibile parlare la stessa lingua ? E’ possibile soprattutto che, da un comune riconoscersi tra lavoratori così simili e così distanti possa scaturire un argine alle aste al ribasso? In caso contrario, ogni sanzione varata dall’alto, ogni “tolleranza zero” evocata contro le delocalizzazioni, rischia di apparire un’arma spuntata”.
Come dargli torto?
Aemme