Cerchiamo di stabilire dei punti fermi per non farci sommergere dalla marea della propaganda governativa e confindustriale. Continuano a ripeterci che la crisi è ormai alle nostre spalle e, naturalmente, che Renzi è l’abile timoniere che ci ha fatto superare le acque insidiose della recessione.
Ma senza inoltrarci troppo nelle discussioni a base di zero virgola, la questione è di stabilire a che punto sono i vari indicatori fondamentali dell’economia non rispetto a un anno o due prima ma rispetto agli anni precedenti alla crisi. Ad esempio, quanto produceva l’economia italiana prima della crisi e quanto produce ora? Quanto investiva il capitalismo italiano e quanto investe ora? Quanti erano gli occupati e quanti sono ora? Alla luce di questi confronti, che sono alla portata di tutti perché pubblicati da moltissimi centri di ricerca, gli 0,7 che diventano miracolosamente, a metà anno, 0,8 per cento e fanno dire che “abbiamo agganciato la ripresa” suonano come minimo prematuri.
Vediamone qualcuno di questi numeri, che prendiamo da una analisi di Eurostat del marzo scorso. Rispetto al 2005, la produzione industriale italiana a tutto il 2014 era scesa del 24%. Gli investimenti e l’occupazione, qui il confronto è con il 2007, erano scesi rispettivamente del 30 e del 5 per cento. Ma forse è più significativo il tasso di disoccupazione che nei bollettini periodici dell’Istat risulta del 6,6% a fine 2007 e dell’11,9% ad agosto 2015.
Non ci interessano questi dati per uno studio sulla congiuntura economica, ci interessano per cercare di capire quali prospettive si aprono, nell’immediato futuro, ai lavoratori e ai tanti che non hanno un lavoro. Per questo non possiamo condividere l’ottimismo del governo e della Confindustria. Certo, gli industriali hanno avuto bei regali dall’ultima legge di stabilità, altri miliardi di euro pagati con il taglio ai servizi sociali, e il Jobs act di Renzi ha aperto loro nuove prospettive di arricchimento basate sul peggioramento radicale delle condizioni dei lavoratori. Certo, i profitti aumentano, e per qualche decina o qualche centinaia di migliaia di privilegiati le cose non vanno affatto male. Ma non è così per la maggioranza della popolazione.
Non è così per i giovani che, se e quando verranno assunti, lavoreranno con l’incubo del licenziamento facile, non è così per i dipendenti pubblici che, dopo 6 anni di blocco dei contratti e di varie decurtazioni degli stipendi, si vedono prendere in giro con 8 euro lordi medi mensili di aumento.
Per quanto i lustrascarpe del governo e i portavoce degli industriali presentino le nuove regole del mercato del lavoro come una rivoluzione e le dipingano con i colori della modernità, le leggi fondamentali dei rapporti tra le classi sociali sono sempre le stesse: a una debolezza della classe lavoratrice corrisponde una ripresa di arroganza, di prepotenza e di aggressività della classe padronale a tutti i livelli e in tutti gli ambiti. Il gran numero dei disoccupati favorisce la disgregazione delle garanzie precedentemente acquisite nei rapporti di lavoro. I bassi salari e l’aumento dei morti sul lavoro sono fenomeni che hanno la stessa matrice.
Dopo le ristrutturazioni fatte in questi anni, ci vorrebbe un incremento medio del Pil di tipo cinese per riportare l’occupazione ai livelli pre-crisi. Con gli 0,7, gli 0,8 o anche con gli uno virgola qualcosa si fa poca strada. I lavoratori e i disoccupati potranno stare buoni, buoni, ad aspettare che si compia questo miracolo?
Se è evidente per tutti i lavoratori, per i disoccupati e i ceti più poveri in genere, che qualche cosa deve cambiare, non è altrettanto chiaro come si può realizzare questo cambiamento. La linea del minor sforzo conduce molti a sperare in nuove aggregazioni elettorali, in nuovi governanti, nei Masaniello che puntualmente si ripresentano in ogni epoca. Ma la via giusta è quella della lotta di classe. La via giusta è quella della lotta condotta collettivamente dalla classe lavoratrice per affermare i propri diritti e le proprie necessità. Chi arriva a capire questo può e deve passare all’iniziativa, all’impegno in prima persona. La necessità di una ripresa delle lotte che è per ora un’opinione, deve diventare la piattaforma di un’azione politica.