In vista dell’appuntamento elettorale di maggio, molti argomenti ritornano a galla. I partiti al governo ne cercano di nuovi per tirare dalla loro parte il consenso elettorale, posto che alcuni di quelli utilizzati finora – benché produttivi, almeno per la Lega – cominciano a essere un po’ usurati
I salari ritornano a far parte degli argomenti elettorali. Per quanto “le famiglie che non arrivano a fine mese” abbiano fatto il loro tempo fra le parole d’ordine di chi cerca una via per arraffare consensi, i bassi salari e i lavoratori poveri, o “working poors” come va di moda inglesizzare oggi, non sono affatto spariti dalla scena sociale, e la crisi economica non dà segni di reale esaurimento. Anzi: guardando in particolare all’Italia, il rischio di recessione sembrerebbe alle porte, almeno secondo le dichiarazioni di Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria.
Il Sole 24 Ore, che di Confindustria è il quotidiano, oltre a manifestare le sue preoccupazioni per la crescita zero nel 2019 dell’economia nazionale, si è occupato di recente anche della dinamica dei salari, comparando i dati di diversi Paesi europei. Ne esce un quadro abbastanza scoraggiante dello stato della classe operaia nel corso della crisi originata dal crollo finanziario del 2008, che in Europa – e soprattutto in Italia – ha fatto sentire maggiormente le sue conseguenze dal 2011 in poi. I salari reali risulterebbero in discesa in gran parte dell’Europa, con punte drammatiche in Grecia, dove hanno subito una diminuzione del 23%, e in Croazia, con un segno meno dell’11%. Ma, sebbene in misura minore, i salari reali hanno subito un calo anche in Paesi maggiormente industrializzati, come la Gran Bretagna e l’Ungheria (-1%), l’Italia (-2%) e la Spagna (-3%). Uniche eccezioni sarebbero Francia (+7%) e Germania (+11%), mentre in Belgio e Finlandia i salari segnerebbero una stagnazione. (Il Sole 24 Ore, 26.3.19) Di segno opposto - secondo il quotidiano - i Paesi dell’Est, dove il potere d’acquisto dei salari sarebbe addirittura esploso, con incrementi intorno al 30% in Romania e Polonia, ma con dati più o meno alti in tutto l’Est Europa.
Nel complesso, comunque, non c’è di che esultare, perché la maggior parte della popolazione del continente europeo soffre di bassi salari, quando non di disoccupazione cronica, e le prospettive future non sembrano particolarmente allettanti, in particolare per il nostro Paese. Perciò, nella prospettiva elettorale a brevissima scadenza, è probabile che non bastino, allo scopo di rastrellare voti, gli attacchi all’immigrazione e nemmeno il reddito di cittadinanza; peraltro, anche estremamente ridimensionato rispetto alla propaganda del Movimento 5 Stelle in versione pre-governativa, non lo è abbastanza da impedire agli industriali di lagnarsi perché in molti casi risulta superiore alla retribuzione mensile di lavoro vivo. Considerando che con un salario di cittadinanza di 780 euro al mese non si vive, c’è solo da considerare la faccia tosta dei confindustriali, che non si vergognano a imporre salari ancora più bassi. La proposta di legge sul salario minimo di 9 euro l’ora, al netto dei contributi previdenziali e assistenziali, capita a questo punto a proposito, considerando che secondo l’Inps il 22% dei dipendenti del settore privato percepisce un salario inferiore a questa cifra. Per l’occasione si è chiamata in causa perfino la Costituzione, laddove l’art. 36 cita “il diritto di ogni lavoratore a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, per assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Sennonché a questo fine la paga oraria è un fatto relativo, quando le ore lavorate sono troppo poche per assicurare “un’esistenza libera e dignitosa”: e non a caso si parla di paga oraria, e non di paga mensile.
Considerando che in Italia la selva dei contratti nazionali di lavoro che vengono registrati al Cnel (Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro) sono oltre 900, e che molto spesso vengono stipulati proprio per eludere gli accordi tra le associazioni sindacali e imprenditoriali “ufficiali”, rimane da capire il grado di efficacia che potrebbe avere un aumento del salario orario per decreto. Soprattutto, resta da capire il suo peso effettivo senza una effettiva mobilitazione e una lotta concreta dei lavoratori in questa direzione. A questo proposito, i sindacati confederali come al solito non hanno molto da dire, se non il consueto mantra sull’entità del salario che andrebbe affidata alla contrattazione…Ma magari! Nei fatti i confederali sembrano preoccupati più che altro di non perdere l’esclusività del loro ruolo nel trattare i salari, senza preoccuparsi minimamente di svolgerlo: “[I sindacati] non hanno mai visto di buon occhio il salario minimo prospettando dubbi proprio riguardo al possibile dumping salariale” (Il Fatto Quotidiano, 26.3.19). Può essere; certo è che, se si lascia l’iniziativa ai Renzi o ai Di Maio di turno, è probabile che il risultato siano gli 80 euro di sconto fiscale di Renzi o la paga minima di 9 euro di Di Maio. Dopodiché, per quanto l’uno e l’altro siano poca cosa, è difficile menzionare negli ultimi anni iniziative migliori da parte dei Sindacati. In questa situazione, non è escluso che il salario minimo possa dare origine a un livellamento in basso dei salari: lontano dall’essere il punto di partenza di una serie di rivendicazioni sostenute dalle lotte, è solo il punto d’arrivo di una fase della campagna elettorale.
Aemme