Pubblichiamo volentieri un breve articolo biografico di Danilo Mannucci, militante comunista del 1921, scritto da suo figlio Giuseppe, che vive oggi in Francia e che ce lo ha fatto pervenire.
Nessuno, o quasi, oggi si ricorda del livornese (ma anche salernitano e francese) Danilo Mannucci. Eppure è stato uno degli incorrotti che hanno pagato duramente il loro antagonismo nei confronti del fascismo e dello stalinismo, dedicando la propria esistenza alla lotta di classe e alla libertà dei popoli oppressi.
Nella sua scelta di attivo militante del movimento operaio, ha attraversato tutte le burrasche dell'organizzazione della sinistra nel Novecento.
Nato a Livorno da Anna Peruzzi e da Gastone, detto “Libeccino”, segue ben presto le orme del padre, schedato come “repubblicano intransigente” in quanto militante mazziniano e anticlericale.
Danilo si iscrive alla gioventù socialista alla fine del 1915. Viene richiamato alle armi, ed è dall'esperienza del primo macello mondiale che in realtà inizia la sua vita politica. Congedato nel 1920, nel 1921 aderisce al neonato Partito Comunista ed è tra gli organizzatori del battaglione degli Arditi del Popolo di Livorno. Assume il comando di una compagnia ed entra a far parte del direttorio segreto. Prende parte a parecchie iniziative contro i fascisti, ma deve, a malincuore, lasciare il movimento a causa delle ingiunzioni della direzione del partito. Dopo numerosi fermi e arresti, dopo il 1923 è denunciato assieme ad altri “sovversivi” per complotto contro la sicurezza dello Stato. Passa tre mesi in carcere ed è in seguito assolto. Continuamente oggetto di aggressioni squadristiche e di azioni di polizia, decide di emigrare in Francia, come tanti antifascisti in quegli anni, per chiedere asilo politico. Stabilitosi in Provenza, è attivo nel movimento rivoluzionario operaio del luogo. Diviene dirigente della Cgtu, il sindacato a direzione comunista, e ha un ruolo di primo piano nelle agitazioni dei minatori del bacino carbonifero del Rodano. Dopo il grande sciopero del 1935, a cui partecipano ottomila lavoratori per cinquanta giorni, il governo decide la sua espulsione come “indesiderabile”. Viene condotto alla frontiera italiana e consegnato alla polizia fascista.
Trasferito nel carcere di Livorno, dopo tre mesi di reclusione, viene rimesso in libertà vigilata e sottoposto per due anni alla misura dell'ammonizione. Pure in queste condizioni proibitive, il Mannucci riesce a trasmettere alla stampa comunista francese dei resoconti sulla situazione italiana. Denunziato per tale attività clandestina di fronte al Tribunale speciale, il 24 giugmo del 1936 è assegnato al confino di polizia per la durata di 5 anni. Dopo aver scontato il confino, prima in Calabria e poi a Ponza e Ventotene, giudicato ancora “elemento pericoloso” gli vengono comminati altri due anni. Li passa prima alle Tremiti e poi a Baronissi, vicino Salerno.
Tornato in libertà dopo la caduta del fascismo, diviene il primo segretario della risorta Camera del Lavoro di Salerno.
In seguito alla “svolta di Salerno” di Togliatti, lui e molti altri quadri e militanti di vecchia data vengono espulsi dal Pci, con il solito corollario di insulti, minacce, provocazioni e menzogne. Già all'epoca del patto Stalin-Hitler per la spartizione della Polonia, Danilo aveva espresso la sua ostilità nei confronti della degenerazione stalinista e ora i nodi vengono al pettine. Espulsi con lui per “deviazionismo” ci sono l'avvocato Ippolito Ceriello, amico personale di Amadeo Bordiga, il libertario Ettore Bielli ed altri, con i quali costituisce la “Frazione di sinistra dei comunisti e socialisti italiani” di Salerno, aderente al Partito comunista internazionalista. Collabora anche con i militanti del movimento anarchico e scrive articoli per il loro più diffuso periodico, Umanità Nova.
La situazione economica e le pressioni politiche lo costringono ad un nuovo esilio. Tornato in Francia nel 1949, muore a Marsiglia nel 1971, testimone e protagonista di primo piano di oltre mezzo secolo di storia proletaria.