Prima ha minacciato sciopero e mobilitazioni per impedire l’approvazione della Riforma del Lavoro; ora che il danno è fatto, promette mobilitazione per modificarla….a colpi di comunicati stampa. Con queste premesse, sarà difficile impressionare Governo e imprese.
Se c’era un modo per fermare la Riforma del mercato del Lavoro, non era quello di minacciare per due mesi uno sciopero che non c’è stato mai. La difesa dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che aveva dato origine nel 2002 a quella che era stata definita la più grande manifestazione del dopoguerra, ha meritato solo scioperi locali, ristretti a poche fabbriche e posti di lavoro isolati. Nemmeno lo sciopero generale - che la Cgil aveva programmato per fine maggio, del tutto fuori tempo rispetto alla presentazione del disegno di legge avvenuta a marzo, ma molto opportunamente per non disturbare la campagna elettorale delle amministrative - si è mai realizzato: alla fine è stato revocato. Come se nel frattempo qualcosa lo avesse reso inutile.
Sicuramente il sindacato, la Cgil in particolare che ne aveva fatto un punto da cui non arretrare, porta un’enorme responsabilità in questa resa senza condizioni. Non si contrastano attacchi di questa forza e di queste dimensioni con semplici dichiarazioni di principio declamate dagli uffici stampa, o appellandosi al buon cuore dei partiti che stanno in Parlamento: meno che mai al PD, ennesimo simulacro di quello che fu – o meglio, che si spacciava per essere – il partito dei lavoratori. Questo partito non ha nessuna intenzione di mettere in discussione il suo sostegno al Governo, e lo fa in nome della “coesione” del Paese, della necessità di “salvare l’Italia”, di una collaborazione di classe in cui la classe operaia ha solo da perdere.
Se il punto di riferimento di un sindacato che si vorrebbe autonomo è questo partito, la sconfitta di qualsiasi lotta è già scritta nelle sue premesse. La classe operaia si trova disarmata di fronte agli attacchi più violenti degli ultimi anni, e senza punti di riferimento per rilanciare le lotte.
Diventa persino ridicolo, se non vergognoso, contrabbandare per passi avanti quelle che sono solo mistificazioni, come sostenere che nel dibattito parlamentare è stato reintrodotto il diritto alla reintegrazione per i licenziamenti economici. In realtà la reintegrazione ormai è una possibilità residuale, e la sua fattispecie stessa non ha più niente in comune con quella prevista dallo Statuto del 1970. L’art. 18 prevedeva, per i licenziamenti senza giusta causa, il reintegro nel posto di lavoro come se il lavoratore non fosse mai stato licenziato, e con l’erogazione di tutte le mensilità trascorse dal licenziamento alla riassunzione. Oggi, il reintegro nel posto di lavoro è possibile solo se il Giudice accerterà la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”, e anche in questo caso potrà risarcirlo al massimo con 12 mensilità. Come si svolgeranno nella pratica questi giudizi, nei quali l’insussistenza dovrà essere dimostrata “manifesta”, non sappiamo. Ma questo cavillo servirà senz’altro per rendere le cause lunghe, complesse, e costose per il lavoratore, che non potrà permettersi di sostenerle per anni, senza contare su un risarcimento. Sarà difficile che aspetti senza lavorare per anni un giudizio che non sa se sarà favorevole, e comunque non gli restituirà il salario perso; se poi nel frattempo avrà lavorato altrove per sopravvivere, nella norma è previsto che quello che avrà percepito gli verrà dedotto dall’indennità risarcitoria. Tutto è ben congegnato in modo che il lavoratore sia strangolato a sufficienza da accettare una transazione rapida, prendere subito un po’ di soldi e rinunciare al posto di lavoro e all’indennità.
All’assemblea degli industriali di Novara dell’11 giugno scorso, il Ministro del lavoro Fornero ha dichiarato candidamente “Abbiamo rivisto l’articolo 18 perché c’era un problema denunciato dalle imprese, che chiedevano di aumentare la flessibilità in uscita, anche per attrarre investitori stranieri […] L’aumento dei salari può avvenire solamente dall’aumento della produttività. Noi con queste riforme, compresa quella del mercato del lavoro, poniamo le basi per un aumento di produttività e da questo può venire un aumento dei salari, che a sua volta serve ad aumentare la domanda di consumi e quindi le imprese possono vendere anche sul mercato interno.” Non è un mistero che tutti i Governi borghesi agiscono in nome e per conto della classe sociale che sfrutta il lavoro. Quando il Governo è definito e si proclama “tecnico” i suoi obiettivi sono ancora più evidenti, e non passano per la fittizia mediazione del consenso. L’unica “tecnica” valida riconosciuta è quella di ottimizzare lo sfruttamento.