Preceduto da una sostanziosa introduzione e da un notevole apparato di note dello storico Paolo Casciola, che ne ha anche curato la traduzione dall’inglese, Il libro di Jurij Alekseevič Buranov, edito dal gruppo “Prospettiva Marxista”, ci porta dentro alla “macchina” del Partito bolscevico proprio mentre è in corso la trasformazione che ne farà, nel giro di un decennio, un baluardo controrivoluzionario. Per i comunisti rivoluzionari, questo testo non modifica in niente il giudizio storico sullo stalinismo, espresso in modo definitivo dagli scritti di Trotsky. Tuttavia, anche le convinzioni più forti si possono irrobustire ulteriormente attraverso la conoscenza di nuovi fatti. Buranov ha effettivamente messo a disposizione del pubblico, attraverso una ricerca scrupolosa in archivi rimasti segreti per decenni, ma anche utilizzando in modo intelligente e critico articoli e saggi già noti, una concatenazione di fatti che meritano di essere conosciuti.
Certo, non si tratta di un testo di facile lettura e si rischia di smarrirsi tra date e citazioni. Ma non sembra possibile che, in un’opera storica, la grande quantità di materiale esaminato potesse essere riassunto o reso più “digeribile”. Quindi si tratta di un saggio da studiare e da annotare, certamente non da leggere superficialmente.
Il titolo dell’opera, “Il testamento di Lenin, falsificato e proibito”, definisce l’ambito della ricerca di Buranov. Nell’intenzione di Lenin, già duramente colpito dalla malattia, le lettere che compongono quello che verrà poi chiamato “testamento”, scritte alla fine del 1922, dovevano essere la base per un intervento al XII Congresso del partito. Esse costituiscono il documento dell’ultima battaglia politica condotta da Lenin contro Stalin e i suoi alleati. “Dal punto di vista delle esigenze degli apparati di un regime ormai in rapidissima mutazione reazionaria – si legge nella presentazione dell’editore - Lenin andava assolutamente messo nelle condizioni di non nuocere, imbavagliato, ridotto al più totale e impotente isolamento. E colpisce profondamente l’immagine di Lenin che – nell’ultimo tratto della sua parabola di militante, divenuto apparentemente il venerato maestro della rivoluzione – deve riscoprire le tecniche cospirative per sfuggire al ferreo blocco che spregiudicatamente, col pretesto di salvaguardare la sua salute, la macchina guidata da Stalin gli ha costruito intorno”.
L’autore mostra come Stalin riuscì a nascondere parte di queste lettere o a manipolarne il contenuto. L’oggetto di queste lettere, alla luce della situazione nella Russia di allora, spiega perché fossero tanto “pericolose”. Esse riguardano l’organizzazione del partito e, più precisamente del suo vertice, nel quale Lenin vorrebbe far entrare un buon numero di operai. Riguardano la necessità di limitare i poteri sempre maggiori che Stalin, come segretario generale, aveva già acquisito nell’apparato di partito e in quello statale. Trattano poi della questione georgiana, in contrasto con la politica staliniana di assorbimento forzato di quella repubblica nell’Unione Sovietica. Trattano degli organi di pianificazione economica, e della necessità di farne organi legislativi, accogliendo la proposta di Trotsky. Un’altra questione affrontata da Lenin riguarda le caratteristiche dell’apparato di stato, del quale vede già la degenerazione burocratica. Peggio ancora, per Lenin si tratta di “una sopravvivenza di quello passato, e meno di ogni altro ha subìto serie modificazioni. È soltanto stato verniciato un po’ alla superficie, ma il resto è rimasto un tipico relitto del nostro vecchio apparato statale”.
Dunque, per gli argomenti sui quali si concentrano e per come vengono affrontati, le lettere di Lenin sono un tentativo di scongiurare lo sfascio o la degenerazione dello stato sovietico, che sta già indebolendo il suo carattere rivoluzionario in gran parte proprio lungo le linee individuate nel “Testamento”.
Gli anni che vanno dalla fine del 1922 al 1924 vedono la momentanea chiusura della prospettiva rivoluzionaria in Europa. Il capitalismo, in tutto il mondo, si riprende dalla crisi del primo dopoguerra. Ovunque consolida le sue posizioni. Un calcolo oggettivo delle forze in campo e delle loro contraddizioni interne poteva certamente indurre alla conclusione che si trattava di una pausa nell’ambito di una crisi di più lungo periodo. Ma, nel frattempo, in un immenso paese circondato da nemici da tutti i lati e ridotto alla fame, come era l’URSS di allora, era normale che si manifestassero stanchezza e sfiducia nelle masse, assieme al desiderio di poter condurre una vita migliore. Lo stalinismo, che univa e organizzava un numero crescente di uomini d’apparato e di carrieristi senza scrupoli, si fece interprete di questi sentimenti e illuse i proletari russi di esserne il rappresentante. Così, nel nome della “costruzione del socialismo in un solo paese”, si rafforzarono le tendenze burocratiche e nazionaliste. Queste trovarono nei bolscevichi più coerenti, radunati soprattutto attorno a Trotsky, un’ostinata resistenza, ma lo sterminio di massa della vecchia generazione rivoluzionaria, negli anni dal 1936 al 1938, sancì la loro sconfitta.
R. Corsini