Le cifre della recessione: salari fermi, consumi in frenata, rincari record per i generi di prima necessità. La precarietà rischia di diventare un’emergenza per un’intera generazione, quella che ha trovato lavoro negli ultimi anni, e si ritrova in caduta libera senza rete. E siamo solo all’inizio.
Se credevamo di esserci lasciati alle spalle gli anni dell’indigenza estrema, in un paese tra i primi posti al mondo come produzione industriale, i dati recenti s’incaricano di dimostrare l’esatto contrario. In un’indagine OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) pubblicata a fine ottobre 2008, tra i Paesi del G7 l’Italia è seconda solo agli Stati Uniti per differenza di reddito tra ricchi e poveri. Tra i 30 Stati membri dell’Organizzazione, la disuguaglianza è maggiore solo in 5 Paesi: Messico, Turchia, Portogallo, Stati Uniti e Polonia.
Ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri è comunque una condizione comune a ben due terzi dei Paesi che fanno parte dell’Organizzazione: salvo poche eccezioni, chi si trova ai livelli più bassi della scala sociale rischia di retrocedere nella miseria, e chi fino a pochi anni fa viveva a livelli cosiddetti “medi” scende rapidamente i gradini del benessere in quasi tutti i Paesi del mondo industrializzato. Il rapporto OCSE non si esprime in termini di classi sociali, ma tutto il rapporto lancia una luce molto chiara sulla condizione della classe operaia: sono i redditi da lavoro dipendente che scendono, sono gli altri che salgono. L’OCSE definisce l’Italia come un Paese nel quale le differenze di reddito sono particolarmente ampie: i salari di livello basso sono estremamente ridotti, mentre ad esempio in Germania, dove i salari minimi sono più alti, le differenze di reddito sono più limitate. In Italia la disuguaglianza economica è cresciuta del 33% dalla metà degli anni ’80, contro una media Ocse che arriva al 12%; il reddito medio del 10% degli italiani più poveri è pari a 5000 dollari (sotto la media Ocse di 7000 dollari); il reddito medio del 10% più ricco è di circa 55.000 dollari, superiore alla media Ocse.
Anche il nostrano istituto Istat non smentisce questi dati: a fine dicembre 2008 è uscito il nuovo rapporto su reddito e condizioni di vita, che evidenzia condizioni da terzo mondo per buona parte della popolazione, con il 5,3% di famiglie, un milione e trecentomila persone, che non ha risorse sufficienti a soddisfare il minimo bisogno di sfamarsi. Una famiglia su tre non è in grado di far fronte a una spesa imprevista di 700 euro, per il 9% di famiglie è impossibile pagare regolarmente le bollette, e l’11% non riscalda a sufficienza la propria abitazione.
D’altronde, come potrebbe essere diversamente? Negli ultimi dieci anni, le categorie di spesa di prima necessità, come la casa o i trasporti, hanno subito aumenti rispettivamente del 47% e del 40%, secondo Confcommercio. Altrettanto alti gli aumenti dei beni di acquisto “ad alta frequenza”, come gli alimentari, che hanno subito aumenti vertiginosi, fino al 36%. Alla faccia delle garanzie sulla stabilità delle tariffe, il costo dei servizi è cresciuto del 40,9%, e si sta parlando di aumenti che riguardano moltissimi servizi pubblici di competenza locale o nazionale.
La classe operaia italiana si affaccia sul buco nero della crisi già indebolita da un decennio di progressivo impoverimento, con salari tra i più bassi d’Europa, senza una rappresentanza sindacale almeno dignitosa, con scarsissime energie e con evidenti difficoltà di reazione. Rispetto all’ultimo decennio, anche il 2008 non ha fatto eccezione: secondo l’Ires, istituto di studi della Cgil, le retribuzioni in termini reali sono ferme. La crescita, non uguale per tutti i settori, è comunque solo nominale, totalmente azzerata dall’inflazione e dal drenaggio fiscale mai restituito. Tra il 2002 e il 2008, le famiglie che hanno come riferimento un lavoratore dipendente hanno perso circa 1600 euro, le famiglie con a capo un imprenditore o un libero professionista hanno goduto di un aumento di reddito pari a circa 9.000 euro. Tutte risorse drenate direttamente dalle tasche dei lavoratori a quelle della borghesia.
L’esplosione della recessione su scala mondiale piove sul bagnato di una situazione già compromessa, e rischia di colpire in misura maggiore proprio chi ha già pagato negli anni la trasformazione dei posti di lavoro in trappole di precariato a vita. Le nuove generazioni sono incappate nel capolavoro della politica sindacale dal ’93 a oggi, un regalo enorme destinato alle imprese sulla pelle di chi ha meno di trent’anni o li ha superati da poco. Molti di questi giovani lavoratori hanno trovato sotto l’albero di Natale la fine dei loro contratti di lavoro, a tempo per definizione, con scadenza a dicembre nel 40% dei casi. Secondo l’Istat, nel 2006 e nel 2007 il 45% delle nuove assunzioni è stato a carattere temporaneo, secondo un’inchiesta giornalistica per la voce.info, sarebbero addirittura i due terzi (La Repubblica, 23.12.08). Sempre secondo l’Istat, negli ultimi quattro anni, i lavoratori dipendenti con contratti temporanei sono cresciuti da un milione novecentomila a due milioni e mezzo, mentre il numero dei lavoratori sotto i 35 anni con un contratto a tempo indeterminato è diminuito del 9%. Un disastro annunciato, che sarà visibile in tutte le sue conseguenze nei prossimi mesi, e metterà in evidenza per questi giovani lavoratori anche la difficoltà di coordinare almeno una minima resistenza organizzata.