21 gennaio 1921-21 gennaio 2011, 90° anniversario della fondazione del Partito Comunista d’Italia
Novant’anni ci separano dal 21 gennaio 1921. Quel giorno, la giovane e battagliera componente comunista uscì al canto dell’Internazionale dal congresso socialista, che si stava tenendo al teatro Goldoni, e si avviò in corteo verso il teatro San Marco per fondare il Partito Comunista d’Italia. Uno dei protagonisti di quella giornata storica, Bruno Fortichiari, ricordava in una testimonianza pubblicata nel 1978: "In questa sala disadorna e rapidamente apprestata dai giovani comunisti livornesi nasceva il Partito Comunista d’Italia, Sezione della Terza Internazionale". Lo stesso Fortichiari lesse i dieci punti del programma del nuovo partito, una sintesi teorica e politica che ne testimoniava l’omogeneità con il partito bolscevico di Lenin e con il resto del movimento comunista mondiale. Il quarto punto si apriva così: "l’organo indispensabile della lotta rivoluzionaria del proletariato è il partito politico di classe". Si era in un periodo in cui scioperi, insurrezioni e tentativi rivoluzionari si erano susseguiti in tutta Europa nell’arco di tre o quattro anni. In Russia la rivoluzione aveva avuto successo e il proletariato aveva conquistato il potere, riverberando sulle classi lavoratrici di tutto il mondo il messaggio luminoso di una speranza che si realizzava e che diventava tanto concreta da scombussolare tutto il quadro delle relazioni internazionali. I bolscevichi avevano promosso la nascita di una nuova Internazionale partendo dai piccoli nuclei di militanti socialisti che, in vari paesi, nel corso della Prima guerra mondiale, si erano schierati non con i propri governi, come la maggioranza dei partiti socialisti della seconda Internazionale, ma avevano difeso e propagandato le parole d’ordine dell’internazionalismo operaio, indicando in primo luogo, ognuno nel proprio paese, la propria borghesia e il proprio governo come nemici della pace e dei propri popoli. Gli operai più attivi politicamente, in Italia come in Francia o in Germania, non si chiedevano se lottare per la rivoluzione sociale ma come. Il succinto programma votato al teatro San Marco cercava di rispondere a questa domanda.
La classe e la necessità del partito oggi
Il partito comunista rivendicava a sé la rappresentanza degli interessi immediati e storici della classe lavoratrice. I comunisti cercavano di dimostrare ai lavoratori ancora influenzati dal partito socialista che il loro era il vero partito della classe operaia, il vero portavoce dei loro interessi. Ma gli operai socialisti condividevano con loro un punto di partenza: la coscienza di appartenere ad un’unica classe che poteva migliorare la propria sorte solo attraverso una lotta collettiva contro il potere della borghesia. Inoltre, il loro partito, il Partito Socialista Italiano, esisteva già da trent’anni e si era fatto strada nell’ambiente operaio proprio convincendo i lavoratori della necessità di una propria rappresentanza politica.
La situazione dei nostri giorni è ben diversa. La borghesia, con i propri organi istituzionali, politici e propagandistici è riuscita, con un lavoro durato decenni, coadiuvata dalle varie reincarnazioni del riformismo, a sradicare in larghi strati della classe operaia non solo l’idea della necessità di un partito operaio ma quella di una identità di interessi tra i vari segmenti della classe lavoratrice. Ciò che è immediatamente utile e urgente oggi è proprio insistere su queste due idee fondamentali, l’una collegata all’altra, l’esistenza di un interesse collettivo dei lavoratori salariati, che proprio in virtù di quest’unico interesse possono essere definiti una classe, e la necessità di un partito politico che ne sia l’espressione. Non c’è dubbio che l’aggravarsi della crisi porterà un acuirsi dei conflitti sociali. Alla Fiat di Mirafiori la metà degli operai ha avuto il coraggio di dire no al referendum ricattatorio inscenato da Marchionne. È un segnale da non sottovalutare. Nelle grandi fabbriche, prima e più facilmente che altrove, sotto i colpi delle ristrutturazioni e impressionati dall’arroganza e dalla prepotenza di tutta una classe borghese di imprenditori, manager e "semplici" ricconi nullafacenti, che esibiscono in modo ributtante i propri privilegi, i lavoratori possono maturare di nuovo una coscienza di classe e avvicinarsi di nuovo alle idee rivoluzionarie. È già successo nel passato, ma la condizione è sempre stata che gruppi di militanti rivoluzionari , per quanto esigui, fossero ben presenti nei principali centri industriali e nelle più consistenti concentrazioni di lavoratori salariati.
Engels scriveva nel 1892: "Di fatto, anche in Inghilterra gli operai hanno di nuovo incominciato a mettersi in movimento. Senza dubbio essi sono ancora tenuti alla catena da ogni genere di tradizioni. Tradizioni borghesi – come il pregiudizio largamente diffuso che non vi possono essere che due partiti, il conservatore e il liberale, e che la classe operaia deve conquistare la sua emancipazione con l’aiuto del grande partito liberale". La catena delle tradizioni borghesi deve di nuovo essere infranta e la classe operaia, nell’Italia di oggi, deve dare vita al proprio partito.
La storia non è un progresso lineare, tanto meno lo è quella della classe operaia e del suo movimento, come non lo è mai stata quella di nessuna classe rivoluzionaria a cominciare dalla stessa borghesia, che ha conosciuto avanzate e ritirate, anticipazioni luminose dei progressi sociali possibili con la liquidazione del feudalesimo e fughe all’indietro con un precipitoso regresso delle condizioni materiali e dello stesso pensiero politico e filosofico. Lo scorrere degli anni non è necessariamente sinonimo di sviluppo sociale e ciò che appartiene al passato dal punto di vista cronologico può essere in realtà un’anticipazione del futuro e indicare l’inizio di una strada ancora tutta da percorrere.
Devozione e coraggio
Il PCd’I nasce pochi mesi dopo la sconfitta dell’occupazione delle fabbriche e delle terre. Cerca di trarre da quella esperienza, nella quale i suoi futuri dirigenti giocano spesso un ruolo di primo piano, quanti più insegnamenti sia possibile. C’è traccia di queste riflessioni in tutti i giornali di partito e nei resoconti dei congressi della stessa Internazionale Comunista .
Ma intanto la reazione borghese incalza. Le squadre fasciste di Mussolini si incaricano di dare una lezione definitiva a questo movimento operaio che prendendo possesso delle fabbriche ha fatto vivere agli industriali e ai banchieri la "Grande paura" di una rivoluzione espropriatrice. I primi mesi di vita del Partito Comunista coincidono con la recrudescenza delle azioni squadriste. Le "vittorie" che, sempre più numerose, segnano l’evolversi della controrivoluzione fascista, le bastonature, gli incendi, i saccheggi delle camere del lavoro, delle cooperative, delle sedi dei partiti operai,sono rese possibili dalla collaborazione più o meno aperta della polizia, dei carabinieri, dell’esercito, della magistratura con le squadracce. Senza dimenticare, naturalmente, i lauti finanziamenti provenienti dalle casse dei grandi gruppi industriali dalla Fiat alla Falck alla Pirelli all’Ansaldo. Un flusso di denaro che consente di mantenere bande di criminali in divisa per poterli utilizzare dove e quando serve.
Questo è lo scenario in cui il PCd’I muove i primi passi. E questa fase iniziale è caratterizzata non solo dai dibattiti appassionati tra i migliori dirigenti: Bordiga, Gramsci, Tasca, Graziadei, ma è anche la storia di una devozione e di un coraggio senza limiti di migliaia di anonimi militanti della base, soprattutto operai e contadini. Ma mentre dei primi, specie nel passato, gli storici si sono abbondantemente occupati, dei secondi bisogna spesso cercare le tracce nelle cronache minute, nella memorialistica locale o nelle storie tramandate ai figli e ai nipoti da una generazione ormai scomparsa. Eppure è questa gente semplice che, affrontando le bastonate delle canaglie in camicia nera, subendo i licenziamenti e la miseria che ne segue, scontrandosi con un fronte sempre più compatto di nemici, rende possibile materialmente l’esistenza del partito. Nessun sacrificio è mai eccessivo per questa straordinaria generazione di militanti operai quando si tratta del "loro" partito.
Sotto il segno dell’internazionalismo
Molti dei giovani che avevano aderito al PCd’I avevano fatto la guerra. Erano usciti inorriditi e schifati da quell’immane macello maturando un istintivo odio per il militarismo, per la Corona e per il grande capitale che faceva profitti favolosi con le forniture di guerra. Il seme internazionalista trovò in questi operai e in questi contadini un terreno sempre più fertile. I nemici veri erano dietro le linee e non davanti!
Soltanto la successiva degenerazione stalinista impose al partito, con la teoria delle "vie nazionali" e delle alleanze con le varie borghesie nazionali "democratiche", l’adozione di tutto un armamentario ideologico grondante di patriottismo. Beninteso, questa degenerazione, con lo stravolgimento dei principi internazionalisti che ne seguì, fu largamente facilitata dalle condizioni di illegalità imposte al PCd’I dalla dittatura fascista. Dal 1927 in poi, fu proibito qualsiasi partito politico che non fosse quello di Mussolini. In questa situazione è chiaro che l’attività politica, frequentemente sconvolta dalle retate della polizia, risultava ridotta all’osso e le possibilità di un dibattito interno di dimensioni nazionali erano quasi azzerate. L’Unione Sovietica poteva mantenere, agli occhi dei militanti comunisti, quasi del tutto ignari della degenerazione stalinista e della rottura con la tradizione rivoluzionaria impersonata da Trotskij, il proprio prestigio e il ruolo di guida della futura rivoluzione mondiale. Le posizioni "ufficiali" divennero quelle di una Direzione i cui membri, se non ancora incarcerati, si trovavano in molti casi in esilio in Francia o rifugiati in Unione Sovietica. Togliatti, Grieco, Robotti, ecc. si assoggettarono allo stalinismo. Gli altri furono espulsi dal partito. Tale fu la sorte di Bordiga, primo segretario del PCd’I, e di dirigenti come Damen, Fortichiari, Tresso e Ravazzoli.
Ma dal 1921 fino almeno al 1926 il PCd’I è saldamente internazionalista, anche nella sua base militante. La memoria delle provocazioni degli studenti nazionalisti, spesso i rampolli della borghesia cittadina, nei mesi precedenti alla guerra, la tragica esperienza delle trincee e l’ostentato riferimento ai "valori nazionali" da parte degli esponenti fascisti, contribuiscono a scavare un solco tra proletariato organizzato e borghesia che si traduce anche a livello dei simboli. Il rosso delle bandiere comuniste e socialiste si contrappone al tricolore nazionale sventolato dai fascisti nelle manifestazioni e negli assalti violenti alle sedi operaie.
Il fascismo si incaricò di dimostrare che la borghesia era disposta a spogliarsi di qualunque orpello "democratico" per colpire la classe operaia. Le varie componenti liberali e democratiche che avevano fino a pochi anni prima rappresentato i suoi interessi, le istituzioni che dovevano garantire la sacralità e l’inviolabilità della "volontà popolare", il mondo accademico e la grande stampa, tutti, uno ad uno, si schierarono con la reazione fascista.
A molta storiografia di "sinistra" dei nostri giorni, armata del senno del poi, piace dipingere un partito comunista corresponsabile, per quanto involontario dell’ascesa del fascismo a causa del suo rifiuto di difendere la democrazia parlamentare. Ma la storia non pose la questione in questi termini. La scelta non era e non poteva essere, per i comunisti, tra democrazia o dittatura, per il semplice fatto che la democrazia borghese parlamentare stava trasformandosi, in ogni sua molecola, in ogni sua componente istituzionale, in dittatura fascista. La lotta era e doveva essere contro la borghesia e il suo apparato militare e poliziesco che andava fascistizzandosi.
Con tutti i loro inevitabili errori, con tutte le ingenuità di un partito giovane anche per l’età anagrafica dei suoi militanti, i comunisti del ’21 portarono avanti questa lotta, senza risparmiarsi, fintanto che fu loro possibile.
RP