Poche riflessioni sulla caduta del ponte Morandi

Senza addentrarci sul terreno delle dispute da ingegneri “fai da te”, che hanno imperversato fin dal giorno stesso del tragico crollo del ponte, alla vigilia di Ferragosto, e stando ben lontani dalle dispute politiche che su quella tragedia si sono scatenate, tra esponenti del governo e dell’opposizione e all’interno stesso del fronte governativo, alcune considerazioni di valore generale scaturiscono dalla elementare valutazione dei fatti.

In primo luogo, si deve partire da una verità banale: se il ponte è crollato vuol dire che qualche cosa è andato storto. Che cosa? Non ha importanza per il ragionamento che stiamo facendo. Quello che conta è che non si è trattato di qualche cosa di imponderabile. Che la grande opera che attraversava il Polcevera sia stata costruita rubando sul cemento o sull’acciaio dei tondini, che fosse in un modo o nell’altro difforme dal disegno dell’ingegner Morandi, che nel corso degli anni i carichi che doveva sopportare fossero sempre più grandi rispetto a quando il ponte è stato progettato, che il cemento armato, anche se gettato in modo conforme alle regole, abbia comunque un ciclo di vita determinato, si tratta in ogni caso di fattori di cui la moderna tecnica delle costruzioni è in grado di prevenire gli effetti. In secondo luogo, è evidente che, per un motivo o per l’altro, chi aveva la responsabilità della messa in opera prima e della gestione del ponte poi, ha omesso di verificarne lo “stato di salute”. Chi chiama in causa questa semplice constatazione? Quali enti, quali apparati ministeriali? Anche qui: non è essenziale per quello che vogliamo dire. In terzo luogo, è fuori di dubbio che il ponte in questione era un nodo vitale per l’economia non solo genovese ma nazionale, data l’importanza primaria del porto di Genova e delle imprese insediate in quella città.

Da tutte e tre queste banali considerazioni ne scaturisce qualcuna che forse è meno banale e scontata: il crollo del ponte autostradale sul Polcevera dimostra che il capitalismo, in tutte le sue varie articolazioni, economiche, politiche e istituzionali, ha la vista corta. Tanto corta da infliggersi da sé un colpo gravissimo, che inciderà indubbiamente sui propri profitti, danneggiando per un tempo ancora non determinabile, un “pezzo” essenziale della propria macchina economica. La corsa al profitto è sempre di più la corsa al profitto “del giorno dopo”. Questo è tanto più vero in Italia, dove la tradizionale attitudine al capitalismo di rapina del passato si è fusa con la moderna “finanziarizzazione” dell’economia.

Nei mesi precedenti al crollo, i commentatori di questioni economiche citavano volentieri una frase attribuita a Keynes: “Nei tempi lunghi saremo tutti morti”. Come dire, non vale la pena di affannarsi nel cercare di prevedere le conseguenze future di questa o quella scelta in campo industriale, bisogna rispondere “qui e ora” agli investitori che vogliono risultati immediati. Ora che nei tempi lunghi che ci separano dal 1967, anno dell’inaugurazione del viadotto genovese, ci sono stati 43 morti, quella frase di Keynes non si sente più rammentare. Ma si può scommettere che la costruzione del prossimo ponte sarà assoggettata alla stessa logica.

RC