Accelerazione della crisi da dicembre a oggi
Si aggrava di giorno in giorno la crisi che investe in pieno il polo siderurgico piombinese. Nel giro di pochi mesi, ogni previsione, anche quella più pessimista, è stata superata dai fatti. Al momento attuale, l’unica cosa certa è davvero che non ci sono certezze, tranne ragionevolmente una: di qualunque crisi si tratti, i vari padroni delle industrie locali, che siano Severstal, o Arceolor Mittal, o Tenaris Dalmine, o il gruppo Lonati proprietario della Cst Net di Venturina, hanno intenzione di rimetterci il meno possibile mentre aspettano che passi la tempesta, e poi di tornare a fare affari possibilmente anche più di prima; sempre che dalla crisi non venga allo scoperto qualche nuova “tigre” in grado di predare i predatori.
In proposito l’ingegner Aldo Bregant, direttore generale di Federacciai, è stato chiaro: nel quarto trimestre 2008 la produzione europea di acciaio è scesa del 20,9%, ma in questo primo trimestre è già stato calcolato un calo del 29%. In Italia, nel mese di gennaio, il calo nella produzione dell’acciaio è stato addirittura del 40,4% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, e per il 2009 non si intravedono vie d’uscita. Ma quel che è peggio, secondo lo stesso Bregant, è che non si sa come si uscirà dalla crisi, perché ogni Paese si sta attrezzando con misure protezionistiche, e questo vale per gli Stati Uniti ma anche per India e Cina; l’Europa esportava negli USA 2,5 milioni di tonnellate l’anno, e potrebbe avere uno sbocco limitato nel mercato statunitense, mentre paesi terzi come Ucraina, Turchia, Russia e la stessa Cina potrebbero tentare di invadere lo stesso mercato europeo. Federacciai chiede al Governo “strumenti di sorveglianza sulla concorrenza sleale”, investimenti nelle infrastrutture, accesso al credito per le imprese, in una parola – come dice la Marcegaglia – soldi veri.
I padroni vogliono essere tutelati dal loro comitato d’affari, chiedono garanzie ai loro lacchè. In tutto questo, i lavoratori sono un semplice accessorio da mettere o togliere al bisogno, al massimo possono costituire una preoccupazione per l’ordine pubblico. Le imprese si rifiutano di accollarsi qualsiasi responsabilità sociale, esigendo sacrifici soltanto da parte dei lavoratori, non sono disponibili a cedere nemmeno una minima quota degli ingenti profitti realizzati negli ultimi anni, meno che mai in un periodo di crisi straordinaria.
Alla Lucchini Severstal, fino a ottobre si discuteva di accordi al rialzo; si parlava di investimenti che avrebbero dovuto potenziare l’altoforno aumentando la produzione fino a 3 milioni di tonnellate l’anno, e anche di ulteriori investimenti per la produzione di laminati piatti per circa un milione e 500.000 tonnellate l’anno. A novembre, quando la crisi non si era ancora ben delineata, l’azienda si era impegnata, con un accordo preso poi ad esempio a livello nazionale, a rinnovare per almeno dieci mesi i contratti in scadenza tra gennaio e marzo. Oggi impone un drastico piano di riduzione degli organici, non rinnova i contratti in scadenza e mette sulla strada 420 operai precari, assunti con contratti a termine o di apprendistato. Non solo: chiede anche il pre-pensionamento di 180 lavoratori in base alla legge sull’amianto, e annuncia una nuova fermata dell’altoforno, dopo quella di dicembre. Stavolta saranno due mesi, luglio e agosto, e comunque al momento della ripresa l’attività sarà a regime ridotto, scendendo a un milione 100.000 tonnellate l’anno. I sindacati avevano chiesto lo stoccaggio del materiale in sovrapproduzione, per evitare un’altra fermata e i rischi alla riattivazione dell’impianto, che aveva creato già molti problemi a gennaio, ma non hanno ricevuto nessuna risposta positiva.
Alla Arcelor Magona, sono previste per ora almeno una novantina di uscite in mobilità incentivata; a metà marzo si esaurisce il primo periodo di cassa integrazione di 13 settimane ed è stato già chiesto il prolungamento. Lo stabilimento lavora al 50% delle sue potenzialità, con prezzi di produzione considerati perciò eccessivi, e prospettive drammatiche, visto che il gruppo Arcelor Mittal ha deciso la fuoriuscita di almeno 6.000 dipendenti in Europa.
Alla Tenaris Dalmine le prospettive sono ancora peggiori, perché è a rischio la stessa sopravvivenza del tubificio. Il gruppo produce attualmente in Italia il 30% di quanto produceva prima della crisi, e Piombino non fa eccezione. A dicembre sono stati licenziati 15 operai precari. Dal 26 gennaio sono partite 13 settimane di cassa integrazione, per 112 dipendenti su 125. Ora la proprietà prende a pretesto le sanzioni decise dal Ministero dell’Ambiente per i danni ambientali provocati dalla fabbrica, con costi che arriverebbero a una trentina di milioni di euro comprese le bonifiche e la messa in sicurezza del perimetro industriale, e fa capire che a queste condizioni non ha nessuna intenzione di continuare a produrre.
La Cst Net di Venturina, un’azienda che produce circuiti stampati, nata con i finanziamenti pubblici di Sviluppo Italia, non ha pagato gli stipendi di gennaio. La proprietà, il gruppo Lonati di Brescia, lamentava già prima della crisi la forte concorrenza della manodopera cinese e indiana: però i soldi pubblici per mettere in piedi la fabbrica li aveva presi; ha chiesto – naturalmente ottenendola - ogni possibile flessibilità e disponibilità dei lavoratori, e oggi ha aperto le procedure di mobilità per tutti e 97 i dipendenti. A gennaio i sindacati avevano chiesto il ritiro delle procedure, una eventuale riconversione della fabbrica per altre produzioni, comunque l’assunzione di responsabilità da parte dell’azienda. In realtà hanno ottenuto due anni di cassa integrazione straordinaria, ancora soldi pubblici quindi.
I lavoratori continuano a sostenere tutto il peso della crisi, e verranno chiamati a farsi carico anche della ripresa. Se non vorranno essere sopraffatti, non dovranno rimanere prigionieri di vertenze gestite solo dai vertici delle organizzazioni sindacali, ma assumere in prima persona il compito della propria difesa, con azioni di lotta organizzate in ogni posto di lavoro, e chiedendo la solidarietà degli altri lavoratori. Ognuna delle proprietà coinvolte nella crisi ha altri stabilimenti, e tutti hanno problemi comuni. E’ il momento di mettere insieme tutte le forze in un fronte comune, per ricordare ai padroni che se i loro profitti hanno un’unica origine, il lavoro operaio, i lavoratori non sono disponibili a essere solo uno strumento passivo al loro servizio.