A inizio gennaio il Consiglio regionale del Piemonte ha approvato all’unanimità l’ordine del giorno che dichiara lo stato d’emergenza occupazionale e salariale. L’assessore al Lavoro ha sciorinato dati eloquenti: nel trimestre luglio-settembre 2019 si è registrato un calo di occupati di 17mila unità. La contrazione si concentra nell’industria manifatturiera (-25mila), a fronte di ben più modesti incrementi nei servizi e nell’agricoltura, e riguarda esclusivamente il lavoro dipendente (-34mila) a cui fa riscontro la crescita del lavoro autonomo (+16mila), con i servizi non commerciali a fare da traino.
Lo scenario offerto dalle reazioni e dai commenti dell’universo politico borghese e del sindacalismo “responsabile” è stancamente prevedibile. Intorno alla polpa della rincorsa a fondi statali, la cui essenziale destinazione a strati parassitari e a padroni grandi e piccoli è qualcosa di ben più corposo di una semplice ipotesi, si è dispiegata tutta una sarabanda di invocazioni all’intervento dei poteri centrali, di esortazioni a proseguire nel rilancio della competitività delle imprese (meno tasse per i padroni etc.), di perentori e velleitari proclami di svolte protezioniste, di appelli all’unione sacra tra tutte le parti sociali in nome dell’emergenza (come se i lavoratori non avessero già sacrificato abbastanza sull’altare del presunto interesse generale). Se la situazione della classe lavoratrice non fosse così dura, le dichiarazioni provenienti dalle varie espressioni politiche della borghesia e dai sindacati ad essa asserviti sulla necessità di porre un freno allo strapotere delle multinazionali, all’espansione dei grandi centri commerciali, sull’atteggiamento predatorio manifestato dal mondo imprenditoriale, avrebbero persino qualcosa di divertente.
Anche in Piemonte è da anni ormai che alla ferrea continuità dell’aggravamento della condizione proletaria fa da contraltare uno spumeggiante susseguirsi di ricambi, sigle e formule elettorali, di slogan roboanti e di figuri in marcia verso la conquista delle istituzioni in nome ovviamente del popolo. Mentre l’usato sicuro (per gli interessi della borghesia) dei vecchi arnesi Pci lasciava spazio al rampantismo renziano (erede di fatto della narrazione del miracolo italiano in salsa berlusconiana), che a sua volta doveva cedere il campo all’avanzata sovranista/populista, la condizione dei lavoratori ha proseguito nel suo deterioramento e le frazioni borghesi più attrezzate ad affrontare la nuova fase della cosiddetta globalizzazione hanno macinato profitti indisturbate.
Crisi, concorrenza, flussi di merci e capitali che premiano un’area a scapito di un’altra, lotta per i mercati, floridi spazi per gli investimenti che si trasformano in fecondi vivai di competitori, corsa al ribasso del prezzo della forza-lavoro, non sono il frutto di politiche sbagliate. Sono elementi propri del capitalismo. Così come proprio del capitalismo è il fatto che sia la classe operaia la componente sociale su cui tende a scaricarsi tanto lo sforzo delle fasi di crescita e di espansione economica quanto i costi e i contraccolpi delle fasi di contrazione e di sofferenza nella competizione capitalistica. Non saranno certo i populisti oggi di moda a presentare al capitale il conto del proprio drammaticamente contraddittorio dominio sull’intera società, a condurre una lotta vera contro multinazionali e grandi gruppi commerciali. Condividono infatti con i loro avversari elettorali moderati, liberali e globalisti la matrice borghese e l’incondizionata accettazione del modo di produzione capitalistico. Alla fine, ognuno con la propria retorica di riferimento, si troveranno tutti intorno all’imperativo di spianare la strada ad «un territorio di opportunità per le imprese», con tutto ciò che significa nella concretezza della società capitalistica e dei suoi rapporti di classe. Un argine alla rapacità del capitale, una barriera di fronte al proseguire del degrado della condizione di vita e di lavoro della classe operaia, può essere posto solo dalla classe operaia stessa, con la sua capacità di organizzazione e di lotta. Non è una strada facile, il terreno da recuperare è molto e da strappare palmo per palmo alla classe nemica e a tutte le sue espressioni politiche e ideologiche. Ma i fatti non si stancano di dimostrare che, per difendere gli interessi dei lavoratori, alternative non esistono.