I rappresentanti del governo continuano a raccontarci che i sacrifici fatti e quelli che ancora ci verranno imposti sono finalizzati ad abbattere il debito pubblico. “Si scorge la luce dopo il tunnel” ci dicono. Ma i fatti hanno la testa dura. E i fatti ci raccontano un’altra storia. Nel corso dell’anno la disoccupazione è aumentata. I senza lavoro sono ormai, lo dice l’Istat, 2.700.000. Quanto al debito pubblico, siamo ormai al 126% del Pil, contro un 123% di inizio anno. Dal settore industriale, che è poi la vera fonte della ricchezza sociale, non arrivano certo buone notizie. In più di una filiera produttiva, cominciando da quella legata all’automobile, si parla ormai di saturazione dei mercati. È sempre più chiaro che un intero sistema economico – in Italia e nel mondo - sta scricchiolando. Il capitalismo, nel passato, è riuscito a superare tutte le crisi e non è detto che non ci riesca anche questa volta. Ma il prezzo che di volta in volta è stato pagato dai popoli è stato direttamente proporzionale alla gravità e alla estensione delle crisi.
Per la classe lavoratrice, nel suo insieme, si pone il problema di giocare un ruolo attivo, di non limitarsi ad aspettare e sperare. E ora, di fronte alla minaccia incalzante della disoccupazione, al primo posto sta la rivendicazione del blocco dei licenziamenti. “Non un solo licenziamento in più!”, questa parola d’ordine è imposta dalla drammaticità della crisi. L’alternativa è ridursi alle condizioni dei lavoratori del terzo mondo. Imporre per legge il blocco dei licenziamenti significa anche togliere al padronato una formidabile arma di ricatto e di intimidazione anti-operaia, significa non essere più costretti ad accettare continui peggioramenti della condizione lavorativa. “Se non ti va bene così, ci sono un sacco di disoccupati pronti a fare il tuo lavoro”, questo ricatto, che sia o meno espresso in termini così chiari, deve finire. Blocco dei licenziamenti significa anche possibilità di riconquistare condizioni di lavoro e salari più decorosi.
Ogni diminuzione del monte ore lavorativo, che si parli di una grande azienda o di un settore produttivo omogeneo, deve tradursi in una spartizione del lavoro fra tutti i dipendenti, e quindi in una riduzione dell’orario individuale di lavoro a parità di trattamento salariale. Queste idee generali possono articolarsi in varie forme ma è importante che non se ne tradisca la sostanza.
Impossibile dal punto di vista economico? Solo se ci si rifiuta di prendere i soldi dove sono. I giornali hanno riportato come curiosità il fatto che ville e appartamenti di lusso vengono venduti a prezzi sempre più alti; “C’è un pezzo di mercato della casa che è del tutto slegato dalla realtà del resto, dai prezzi che crollano per le case normali e dalle possibilità economiche di gran parte dei cittadini” citiamo un articolo del Corriere della sera.
Alcuni studi recenti hanno dimostrato che la fetta della torta del reddito nazionale che tocca a salariati e pensionati è diminuita, da metà degli anni ’90 ad oggi, passando dal 68 al 57 per cento. Un analista economico, Giovanni Canepa, ha scritto: “Se la proporzione di reddito che va ai salari fosse la stessa di trenta anni fa, a ogni dipendente italiano spetterebbero circa 6000 euro in più, che si sono invece spostati nel tempo verso profitti, rendite e redditi da capitale”. Semplicemente esigendo di avere lo stesso peso economico proporzionale degli anni ’90, i lavoratori avrebbero “a disposizione” seimila euro in più l’anno ciascuno! Si possono trovare altre decine e decine di esempi. Tutti ci portano ad un’unica conclusione: i soldi ci sono. Occorre la forza dei lavoratori per spostarli dai profitti e dai grandi patrimoni ai salari.