Sembra sabbia. Ma è spazzatura.Thilafushi è sette chilometri a ovest di Male, è una striscia, sottile: è lunga 3,5 chilometri e larga 200 metri. Ed è artificiale. Si allarga di un metro quadro al giorno, più o meno: ogni giorno di 330 tonnellate di rifiuti. Le Maldive non hanno un inceneritore. Costa troppo. Intorno ai 15 milioni di dollari.Quanto dieci nuove stanze in un resort.Sono tutti operai, qui. Thilafushi è anche la zona industrialedelle Maldive. Ha un cementificio, dei cantieri navali. E una serie di piccole officine. Non c’è l’asfalto, per terra, e neppure la sabbia, in realtà. Solo questo fango chiaro che è un po’ di tutto: è terra, è sabbia, acqua, cemento, intriso di stracci, di pezzi di cartone, pezzi di plastica, pezzi di ferro, a tratti un po’ d’erba, nell’aria densa di diossina. Sembra Taranto. Respiri cancro. (…) Gli operai dormono qui. Abitano qui: nel retro delle officine. O nelle barche. Nelle barche che riparano. Sono aperte, smontate: dentro vedi il bucato steso ad asciugare. Poi hanno tutti gli stivali da infortunistica, il caschetto e la polo con il logo dell’impresa, ti sembrano tutti operai normali: ma solo perché i padroni hanno bisogno di uomini forti e sani. Ti pagano il caschetto. Ti pagano i guanti, dovessi tagliarti e stare fermo una settimana. Ma per il resto puoi vivere così, in spiaggia. Senza neppure una doccia.
Francesca Borri, su “Il Fatto”, 17 ottobre 2017