Parole chiare

Il governo dei “tecnici” non smette di sfornare capolavori. Ha esordito portando l’età lavorativa alle soglie della vecchiaia. Questo significherà, tra le altre cose, esporre una quota maggiore di lavoratori ai rischi e alle malattie professionali. La famosa “speranza di vita”, fra qualche anno, farà una brusca inversione a “U”. Naturalmente, anche il peggioramento generale delle condizioni dei ceti popolari contribuirà a questo risultato se, come ormai ci dicono le statistiche ufficiali, sempre più gente rinuncia a farsi curare perché non è più nelle condizioni di sostenere le spese mediche. La modifica dell’articolo 18, cioè la via libera ai licenziamenti facili, non farà che aggravare il quadro generale della condizione operaia.

Passata dunque, senza resistenze apprezzabili, la “Riforma del lavoro”, le attenzioni del governo si rivolgono ora alla spesa pubblica e al pubblico impiego. Si parla dei dipendenti dello stato e degli enti locali come di oziosi privilegiati. “Bisogna poterli licenziare!” , si grida da tutte le parti. L’obiettivo del governo è chiaro: ridurre del 10% la massa dei dipendenti nell’ambito di una spending review che andrà a indebolire ulteriormente il sistema sanitario e gli altri servizi alla popolazione. Perché mentre si può rimettere in discussione ogni norma, se questa tutela gli interessi della gente comune, non si può certo mettere in discussione, tanto per fare un esempio, il servizio del debito, ovvero quei settanta o ottanta miliardi che il Tesoro paga mediamente ogni anno ai detentori dei titoli pubblici, in grandissima parte banche, fondazioni e gruppi finanziari.

Secondo Monti e secondo i suoi sostenitori, I lavoratori, pubblici e privati, dovrebbero capire. Dovrebbero tacere ed adeguarsi. Che cosa sono le loro pretese di una vita decente, di un lavoro sicuro e di un salario dignitoso, di fronte ai mercati, di fronte alle leggi dell’economia? Dovrebbero rimettersi fiduciosi alla politica economica di quel manipolo di milionari, banchieri, avvocati e ragionieri arricchiti, che siede al governo. Ora si stringe la cinghia, ci dicono, ma poi arriverà la crescita.

Intanto però loro la cinghia non la stringono e l’unica cosa che cresce è la disoccupazione. E come potrebbe essere altrimenti? In ogni azienda, in ogni amministrazione, nel pubblico come nel privato, la parola d’ordine è alleggerirsi . Diminuire il numero dei dipendenti è diventato sinonimo di efficienza economica.

I sindacati che cosa fanno? Stanno pensando allo sciopero generale. Proprio così: “stanno pensando”. In pochi mesi, da quando si è insediato, il governo “tecnico” ha fatto a brandelli i pochi diritti fondamentali rimasti ai lavoratori e loro… stanno pensando!

Eppure sono maturi i tempi per una risposta generale. Non parliamo di uno sciopero ogni tanto o di una manifestazione a Roma una volta l’anno. Parliamo di un piano di lotte che coinvolga tutto il mondo del lavoro su una piattaforma che ne rappresenti gli interessi complessivi. Un salario minimo vitale garantito a tutti e protetto dagli aumenti dei prezzi, una spartizione del monte ore lavorativo fra occupati e disoccupati senza decurtazione della paga, la proibizione dei licenziamenti. Sono questi i provvedimenti di cui tutta la classe lavoratrice avrebbe immediato bisogno per mantenere un livello accettabile di civiltà, nel pieno di una crisi che il centro studi della Confindustria ha paragonato, per i suoi effetti economici e sociali, a una guerra.

Una mobilitazione generale del mondo del lavoro è certamente qualche cosa di grande e di difficile da realizzarsi. Senza dubbio però è anche il solo presupposto perché milioni di persone non cadano nella miseria e altrettante ci si avvicinino.

Per tutto c’è un inizio. Per ogni grande impresa c’è un primo piccolo passo. Oggi il primo passo è mettere insieme i lavoratori che non vogliono continuare a subire senza reagire, quelli che non sono rassegnati, quelli che non dicono “non possiamo farci niente”.

Di che cosa si tratta in pratica? Di passare dalle discussioni casuali davanti alla macchinetta del caffè, alla mensa aziendale, nello spogliatoio, all’inizio di un’attività cosciente e organizzata di agitazione e denuncia sistematica. Anche pochi lavoratori possono rappresentare una forza se ben organizzati. Certo, non possono promuovere da soli uno sciopero generale, ma possono iniziare a combattere quella passività, quell’apatia, quella sfiducia nelle proprie forze che così spesso paralizzano la classe lavoratrice. Per il fatto stesso di esercitare questo tipo di attività, in una fabbrica o in un quartiere, tre o quattro lavoratori rappresenteranno già un inizio promettente, contribuiranno ad alzare il morale dei loro compagni, toglieranno terreno alla rassegnazione, dimostrando nei fatti che si può reagire, intanto facendo intendere la propria voce, con volantini, con riunioni, con bollettini periodici, con piccole manifestazioni.

Non è più l’ora della rassegnazione. È l’ora dell’impegno in prima persona e dell’iniziativa perché nessuno toglierà le castagne dal fuoco ai lavoratori se non lo faranno loro stessi.