Paghe da fame e vita da schiavi

Difficilmente i lavoratori agricoli fanno notizia. Per finire sulle prime pagine dei giornali deve succedere qualche fatto eclatante, come la morte per fatica di alcuni braccianti, avvenuta negli anni recenti nelle campagne del sud, o perché qualcuno decide di sparargli addosso


L’organizzazione non governativa Oxfam si è occupata ultimamente della distribuzione dei proventi delle vendite dei prodotti alimentari. Quello che è venuto fuori è degno di nota, perché non sempre è destinatario della necessaria attenzione. Secondo il rapporto dell’organizzazione, il 50% del prezzo degli ortaggi che vengono consumati va alla grande distribuzione, e meno del 5% ai produttori e ai lavoratori del settore. La concentrazione massiccia dei guadagni è destinata quindi per la maggior parte a riempire le tasche dei giganti del settore commerciale, come dettagliato in particolare nel rapporto relativamente alle otto maggiori catene di supermercati quotati in borsa negli Stati Uniti. Questi ultimi avrebbero incassato nel 2016 ben 1000 miliardi di dollari, generando 22 miliardi di profitti e staccando la bellezza di 15 miliardi di cedole agli azionisti. Secondo quanto calcolato nel rapporto, basterebbe il 10% di questi dividendi, incassati dagli azionisti senza fare assolutamente niente, per garantire un salario minimo a 600.000 lavoratori tailandesi nel settore della trasformazione dei gamberetti (La Repubblica Economia, 21.6.18).

Questo per quanto riguarda la potenza più ricca del pianeta. Mutate le proporzioni, non succede molto di diverso altrove: “Per esempio, per i produttori su piccola scala di the indiano o di fagiolini verdi del Kenia il guadagno medio è pari a meno della metà di quanto sarebbe loro necessario per condurre una vita dignitosa. Ma per trovare guadagni da fame e condizioni di lavoro pesanti e ingiuste non bisogna necessariamente arrivare in Africa. Noi la nostra Africa ce l’abbiamo nelle nostre campagne (…) l’offerta è molta, i proprietari terrieri possono permettersi di scegliere tra chi si accontenta e chi vorrebbe lavorare secondo la legge.” (La Repubblica Economia, 21.6.18). A quanto pare, in Italia i lavoratori irregolari in agricoltura sono almeno 430.000, e lavorano anche 12 ore al giorno per salari da fame, che a volte non superano i 20 euro a giornata, ben al disotto del minimo legale di 47 euro. In particolare, nelle raccolte stagionali di frutta e verdura sono impiegati soprattutto immigrati e donne. Il 75% di queste ultime, a domanda diretta afferma di essere sottopagata (La Stampa, 21.6.18). E comunque non soltanto nel Sud, dove si trovano le grandi estensioni di coltivazione dei pomodori o della frutta; anche nelle campagne toscane, dove gli immigrati sono in numero ingente, raramente le paghe superano i 3 euro l’ora. Per non parlare del Nord, dove la coltivazione dei vigneti e della frutta, ma anche del mais, e tutta la filiera del latte si reggono spesso sul lavoro degli immigrati almeno tanto quanto nel Sud. Per finire con l’Agro Pontino, dove i lavoratori indiani impiegati nell’agricoltura hanno formato ormai delle comunità strutturate.

Che il lavoro agricolo sia lavoro iper sfruttato, sia per gli immigrati che per gli italiani, non è una novità per nessuno. Che sia in larga misura al nero, anche. Solitamente si lascia fare: la legge sul caporalato, che il nuovo Governo preferirebbe abolire, è stata conquistata solo nel 2011 proprio con la lotta e lo sciopero di Nardò dei lavoratori immigrati. Prima di allora, nonostante la conoscenza del fenomeno, non c’era stato nessun intervento concreto: e naturalmente una legge non basta, se nessuno la rispetta né la fa rispettare. D’altra parte, avendone l’intenzione non sarebbe difficile…se riesce ad appurare i fatti una semplice organizzazione, non dotata di né di organismi d’indagine né di forze repressive, non si vede perché non dovrebbe poterlo fare lo Stato.

Ugualmente, tutti conoscono perfettamente le condizioni in cui lavorano e vivono i lavoratori immigrati impegnati nella raccolta stagionale dei pomodori nel Sud: doppio sfruttamento di proprietari terrieri e caporali, che sottraggono dalla paga il prezzo del trasporto sui campi e del panino con cui i braccianti si dovrebbero sfamare. Ma non solo: questi lavoratori sono costretti ad alloggiare in baracche di fortuna, costruite da loro stessi con lamiere e cartoni, dove devono svolgere le normali funzioni quotidiane, in condizioni igieniche disumane, senza acqua corrente e con l’assistenza sanitaria affidata unicamente al volontariato. Senza di loro, forse i pomodori marcirebbe nei campi; ma la loro condizione di bisogno li rende ricattabili e disponibili a ogni sacrificio, che nessuna autorità evidentemente avverte il bisogno di impedire.

Proprio per procurare materiale di recupero per la baracca di un compagno di lavoro, Soumalia Sacko, un migrante maliano sindacalista dell’USB, è stato sorpreso in un magazzino abbandonato e freddato con un colpo di fucile. Non si sa se la sua militanza sindacale abbia qualcosa a che vedere con l’omicidio, e forse non si saprà mai.

D’altra parte, una certa morale corrente è portata a deplorare la condizione delle galline allevate in batteria per la produzione di uova, alle quali peraltro vengono assicurati vitto, alloggio e cure sanitarie; curiosamente non avverte con altrettanta chiarezza la condizione degli esseri umani che provvedono alla verdura per la sua insalata.

Aemme