Nei giorni scorsi la moneta unica europea stava segnando dei record di ribasso rispetto al dollaro. Per anni giornali, televisioni ed esponenti di governo ci hanno spiegato che l'euro forte era pressoché la causa di tutti i problemi di un'economia europea “votata all'esportazione”. Tanto la crescente disoccupazione, quanto l'aggravarsi della crisi si addebitavano al cambio “squilibrato” euro-dollaro.
Oggi che il rapporto tra le due monete si è rovesciato la canzone non cambia.
Nella realtà, né i governi, né gli economisti dietro la cui “competenza” si nascondono non hanno nessun controllo sull'andamento folle di un'economia capitalista in crisi.
Anche il ribasso del petrolio è considerato pericoloso, proprio come, non è molto tempo fa, era pericoloso il suo rincaro.
Qualcuno ha inventato l'espressione “Grexit”. Mettendo insieme le parole “Grecia” ed “exit” che sta per “uscita” in inglese. Che cosa significa? Che la Grecia del dopo elezioni potrebbe uscire dalla zona euro scatenando nuove ondate di speculazioni contro la moneta unica. E se Tsipras giura e spergiura di non voler uscire dall'eurozona e la cancelliera tedesca dichiara di non temere l'eventuale estromissione della Grecia dal club dell'euro, tutto questo non serve a tranquillizzare i famosi “mercati”.
Tutto accade come se il minimo rumore, anche se smentito, rendesse inquieti e febbrili gli ambienti finanziari. Ed è vero. Almeno nel senso che il mondo della speculazione fa delle notizie sulla politica, sui bilanci aziendali, sulle intenzioni vere o presunte dei grandi consigli di amministrazione, sulle guerre e perfino sugli scioperi, un punto di partenza delle proprie decisioni. Questo spiega, tra l'altro, il profondo legame che si è stabilito, fino dagli inizi dell'era capitalistica, fra “libertà di stampa” e finanzieri. Fino al coinvolgimento diretto nella proprietà dei giornali, con l'ovvia conseguenza di potersi garantire notizie di prima mano, prima dei concorrenti, e, talvolta, con la possibilità di “costruire” notizie in grado di scatenare improvvisi rialzi o repentini ribassi di titoli sui quali si vuole speculare.
La stampa, dunque, continua a titolare: “Mercati sotto tensione”. Ma la vera tensione, la vera contraddizione, per meglio dire, riguarda la produzione industriale. É questa che segna il passo da anni a causa della riduzione della domanda, cioè a causa dei bassi salari e della disoccupazione, mentre i grandi gruppi traboccano di capitali da investire. Il loro stesso campo di attività, la produzione di beni materiali, non è abbastanza redditizio nella situazione data. Così cercano nella speculazione i profitti che la sola attività industriale non può assicurare loro. Ed è una speculazione che si realizza nelle forme più varie. Si va dal commercio di azioni alla speculazione sul corso delle monete, ai più diversi “prodotti finanziari”.
Anche il vasto piano annunciato dalla Banca Centrale europea, il quantitative easing di Draghi, che prevede l'acquisto di una gran parte dei titoli di debito pubblico degli stati UE, è già un'occasione di speculazione: “Gli investitori ci contano”, scrivono i maggiori quotidiani. E c'è anche chi ha “anticipato” le mosse di Draghi confidando in una crescita del prezzo dei titoli di stato dovuto alla domanda supplementare della BCE.
Si tratta in ogni caso di un altro fiume di soldi che arriverà alle banche. Queste dovrebbero poi immetterlo nell'economia. Un film che abbiamo già visto. La scopiazzatura tardiva di analoghi provvedimenti presi dalla Federal Reserve americana alcuni anni fa.
Tutto fa presagire che la preoccupazione futura dei grandi operatori finanziari, compresi tanti imprenditori industriali, non sarà quella di utilizzare il nuovo flusso di denaro disponibile per rendere più moderno l'apparato produttivo o incentivare la ricerca di nuovi prodotti o di nuove tecniche di produzione. Il ritorno economico, di questi tempi, sarebbe troppo incerto e spostato in avanti nel tempo. Meglio rivolgersi ancora al gioco mondiale della speculazione. Se questo contribuirà a far chiudere altre fabbriche, pazienza. Il capitalismo, come modo di produzione, è in crisi. Ma i capitalisti non sono così affezionati alla loro economia da voler affondare con essa, anzi: dal naufragio vogliono guadagnarci qualcosa.
R.C.