Opposizione internazionalista alla guerra!

Le decine di migliaia di morti del conflitto russo-ucraino e gli oltre 40mila della striscia di Gaza, per restare alle guerre di cui si parla più frequentemente nei mezzi di informazione, ci mostrano a quali disastri sta conducendo l’umanità un mondo completamente subordinato al capitalismo. Ed è inutile illudersi che si tratti di crisi regionali circoscritte perché il grado di implicazione degli Stati apparentemente “pacifici” aumenta di giorno in giorno. Continuano ad accumularsi tutti gli elementi infiammabili che preparano un aggravamento dei conflitti esistenti e, in prospettiva, una guerra mondiale. Ogni borghesia nazionale, grande o piccola, ogni grande potenza, ogni apparato di potere, combatte per rafforzare, mantenere o allargare il proprio controllo in una determinata area geografica, supponendo di avere l’occasione e i mezzi per farlo. Agli occhi dei gruppi dirigenti di tutto il mondo, la guerra è tornata ad essere un’opzione praticabile della propria politica estera.

Uno dei fattori che si sta aggiungendo a questo fosco scenario è quello delle materie prime. Più precisamente, di una serie di materiali, più o meno rari, di cui si è molto parlato a proposito della conversione “ecologica” della produzione industriale, ma che hanno anche un’applicazione diretta nella produzione bellica.

Il quotidiano della Confindustria, Sole 24 Ore, del 25 agosto ha pubblicato un articolo illuminante a questo proposito. Se ne ricava che la produzione e il controllo della distribuzione di minerali essenziali per la produzione di armamenti sono in gran parte in mano al fronte dei “cattivi”, cioè la Cina, prima di tutto, ma anche la Russia. Ad esempio, la Cina è il maggiore produttore di 20 “materiali critici” indispensabili all’industria militare e ne è anche il primo fornitore per gli Stati Uniti. Secondo il servizio di ricerca del Congresso americano, in caso di conflitto su larga scala, le scorte di metalli accantonate sarebbero sufficienti solo al 37,9% delle necessità della produzione di armamenti. Nel secolo scorso, si legge nell’articolo, erano USA e Gran Bretagna “a dominare in gran parte le forniture di materie prime – un asso nella manica probabilmente determinante per la vittoria della Seconda guerra mondiale – oggi la situazione è molto diversa. E in una situazione geopolitica deteriorata, che infiamma anche il Medio Oriente, l’allarme sta crescendo.

Qui è evidente come si profili sempre più chiaramente un terreno di scontro e di come si torni, soprattutto per le potenze imperialiste, alla necessità del “possesso”, o almeno al controllo, dei territori geografici.

Le più svariate ragioni che stanno spingendo il mondo verso una conflagrazione generalizzata possono essere tutte ricondotte ai fondamenti economici della società contemporanea, cioè al capitalismo.

Per mantenere e moltiplicare i propri profitti una minoranza privilegiata, in ogni paese, si serve degli apparati statali, della diplomazia, della “politica”, della propaganda patriottica, degli eserciti e, quando occorre, della guerra.

Ma questa minoranza ricava la propria ricchezza dal lavoro umano. È la classe lavoratrice, sono i proletari di tutti i paesi quindi, l’unica forza che ha i mezzi per fermare la macchina infernale che spinge l’umanità verso un precipizio senza fondo. Per questo le classi dirigenti di tutto il mondo si sono sempre accanite contro ogni forma di internazionalismo dei lavoratori, per questo hanno sempre cercato di cancellare ogni traccia dell’eredità politica dei grandi movimenti rivoluzionari e di emancipazione operaia del passato.

Spingendo i popoli a scannarsi l’un l’altro, i dirigenti al servizio della grande borghesia industriale e finanziaria propinano loro delle ragioni “etiche”, degli “ideali” per i quali varrebbe la pena di offrire il proprio martirio. Ma, da comunisti, pensiamo che alla domanda: “Quali sono i motivi di questa guerra?”, la risposta da dare, per ciascuno dei conflitti che insanguinano il pianeta, sia la stessa, lapidaria, che molti anni fa dette il giovane rivoluzionario John Reed a un convegno di liberali americani: “Profitti”.