Il governo Berlusconi verso la crisi? Forse. La Confindustria sicuramente no.
Il governo è ormai agli sgoccioli? L’"età berlusconiana" è al crepuscolo? Le migliori firme della grande stampa sembrano convergere su questi giudizi. In più, la Confindustria si è dimostrata sempre più indispettita dai "riti arcani" della politica romana. Le espressioni che abbiamo messo tra virgolette sono quelle usate da due diversi commentatori, sul Corriere della Sera e sul Sole 24 Ore. Se il più grande quotidiano nazionale e il giornale della Confindustria vedono nero sul futuro del governo Berlusconi, vuol dire, con ogni probabilità, che nella grande borghesia si rafforzano le correnti favorevoli a una qualche soluzione governativa di ricambio.
Certo, l’elenco di mascalzonate piccole e grandi attribuibili al "Cavaliere" e al suo seguito, condite con smargiassate, volgarità, minacce e insulti a tutti gli avversari politici, compresa la Magistratura, non ha fatto che aumentare, tra la gente comune, il numero di quanti sperano in una rapida uscita di scena di Berlusconi. Sicuramente non ci sarebbe da dispiacersi di questa eventualità. Ma bisogna aver chiaro che la lotta politica è qualche cosa di molto più complicato di una scelta pro o contro un leader di governo in carica. Intanto, la "soluzione di ricambio" sembra maturare nell’ambito del centrodestra più che in quello dell’opposizione. Il neonato gruppo di Fini ha dimostrato, avvalendosi anche della pattuglia degli autonomisti siciliani, di essere indispensabile per tenere in piedi la coalizione. È probabile che, partendo da questo punto di forza, si stiano costruendo le premesse per una nuova aggregazione di centrodestra, sulle macerie dell’attuale PdL e sul "cadavere" di Berlusconi. Un nuovo PdL più "nazionale", cioè con una politica che stia attenta a legarsi i piccoli industriali e i ceti piccolo-borghesi e impiegatizi, compresi quelli militari, di Roma e del Mezzogiorno, allontanandosi dall’immagine di "partito del Nord" e controbilanciando la Lega di Bossi. Non è detto che questa battaglia sia portata a buon fine e non è neanche detto che, se coronata da successo, porterà ai suoi promotori le glorie sperate.
In ogni caso, se anche Berlusconi cadrà, non cade la Confindustria, né crolla il suo programma. Per i lavoratori non avrà molta importanza sapere quale forza politica, quale coalizione o quali uomini saranno i rappresentanti e gli esecutori degli obiettivi confindustriali. La cosa certa è che l’organizzazione guidata dalla Marcegaglia detterà ancora l’agenda della politica governativa, perché più o meno tutti i partiti accettano il "verbo" del padronato come riferimento della propria politica, e cercheranno con tutti i mezzi di far quadrare il difficile compito di fare ingoiare alla massa della popolazione le conseguenze della crisi finanziaria conservandone nello stesso tempo il consenso.
Nell’articolo del Sole 24 Ore del 30 settembre, che abbiamo rammentato all’inizio, si dipinge questo quadro: "mentre la politica a Roma consuma i suoi riti arcani e che stuccano sempre più i cittadini, il mondo si muove. Federmeccanica, Fim e Uilm hanno raggiunto l’accordo sulle deroghe al contratto nazionale dei metalmeccanici, si va riaprendo il dialogo raziocinante fra Confindustria e Cgil e la Magistratura del lavoro ha dichiarato inammissibile il ricorso della Fiom sul reintegro dei tre operai di Melfi". Tutto dunque si ricompone. A confermarlo c’è perfino il bacetto di Epifani alla Marcegaglia. In questo "mondo che si muove" qualcuno si è mosso per primo, come la Confindustria e i sindacati più "responsabili", Cisl e Uil, ma non si può andare avanti senza accettare il "figliol prodigo", Epifani, che però dovrà rapidamente mettere in condizioni di non nuocere la Fiom. Tutto, compreso la dichiarazione del tribunale del lavoro, va nella direzione di quanto sostengono Marchionne e Marcegaglia: basta con il conflitto capitale-lavoro, lavoriamo tutti insieme. Per riconquistare quei sette punti di Pil che si sono persi negli ultimi due anni, per rendere competitivo il sistema-Italia, per modernizzare il paese… Come no?
Nel frattempo, però, in attesa della "germanizzazione" o della "americanizzazione" del capitalismo italiano (si dibatte ancora su quale sia il modello migliore), che cosa si vuole dai lavoratori?
Semplicemente che accettino senza tante storie la chiusura della propria fabbrica, oppure che accettino con gratitudine il salario di fame della cassa integrazione, oppure, quando hanno l’immensa fortuna di aver mantenuto il posto di lavoro, che rinuncino di buon grado al diritto di sciopero, vadano a lavorare malati, non si prendano troppo tempo per andare al gabinetto, lavorino sodo e facciano gli straordinari ogni volta che la direzione aziendale lo richiede.
In tutto questo non riusciamo a vedere niente di moderno e, ne siamo certi, molti altri lavoratori la pensano allo stesso modo.
Moderno e nuovo sarebbe che finalmente la classe lavoratrice trovasse la forza di reagire in una lotta generale per smettere di pagare ancora la crisi del gran capitale. Impegnarsi su questa strada è mille volte più importante di elaborare programmi elettorali. La lotta è di classe, anche se Marchionne non vuol sentire questa espressione. Lotta di classe significa che l’insieme dell’imprenditoria industriale e finanziaria è interessata a un aumento dello sfruttamento dei lavoratori e ad una politica di spoliazione del bilancio pubblico attraverso le privatizzazioni e attraverso i più diversi incentivi, sotto i più diversi nomi che, in ogni caso, si intasca lei. Una spoliazione che pagano e pagheranno ancora i lavoratori attraverso un peggioramento generalizzato dei servizi pubblici e sociali. Per questi obiettivi vanno bene i governi di tutti i colori, a condizione che sappiano mantenere una certa stabilità interna e tengano sotto controllo, con le buone o con le cattive, il malcontento della maggioranza della popolazione.