Vedere un operaio o un’operaia che piangono, perché nella società del capitale è stata decretata la loro irrilevanza, è qualcosa che prende allo stomaco. Vite intere, giorni e giorni spesi sul luogo di lavoro, soddisfazioni e travagli della vita famigliare, tutto questo viene annichilito nel momento in cui diventa brutalmente chiaro che la forza-lavoro è solo merce, è un fattore produttivo che soggiace ad una logica economica votata al perseguimento del massimo profitto. Ciò che i lavoratori possono aver considerato il raggiungimento di una dignità professionale, conquistata con un impegno continuo e con sacrifici nel nome del bene aziendale, si svela improvvisamente come una crudele irrisione. Quegli uomini e quelle donne, quegli esseri umani adulti con le loro responsabilità di padri e madri, con i loro percorsi e le loro aspirazioni, sono stati derubricati in un istante come “esuberi”.
Qualcosa di simile devono averlo provato diversi tra gli 83 lavoratori a cui l’azienda LivaNova di Saluggia, nel Vercellese, ha annunciato il licenziamento. Un annuncio arrivato il 20 novembre, improvviso, duro e indifferente come la sentenza di un despota lontano. Con la chiusura della linea di produzione delle valvole cardiache biologiche, che verrà trasferita in Canada, perderanno il posto 52 lavoratrici impiegate direttamente nella produzione, oltre che altri addetti e qualche quadro e impiegato.
E pazienza se la stampa locale ricorda che con questa scelta si recide un legame col territorio che si è snodato per mezzo secolo, accompagnando il passaggio dall’economia agricola a quella industriale. Il capitale nel perseguire i propri, esclusivi, interessi ha fatto ben di peggio, ha calpestato rapporti, tradizioni e stili di vita ancora più radicati.
Tutto questo si consuma in un quadro politico regionale segnato dalle passate esperienze amministrative di una sinistra corrotta fino al midollo dai dogmi del capitalismo e dai recenti trionfi di un populismo/sovranismo che condivide pienamente la natura di classe dei rivali elettorali e che, conseguentemente, si dimostra tanto rabbioso e spietato nel fomentare la guerra tra poveri stranieri e italiani quanto nei fatti succube e complice nei confronti del capitale e delle sue mosse. Intanto, i sindacati confederali, dopo aver lamentato che l’azienda ha comunicato i numeri dei licenziamenti come «irreversibili», hanno adottato un’impostazione ormai entrata a far parte del Dna delle proprie burocrazie. Data, a quanto pare, per acquisita e insindacabile la decisione dell’azienda (del resto gli esuberi sono stati definiti «irreversibili» da fonte autorevole…), si tratterebbe di evitare il peggio per gli altri occupati del sito produttivo e casomai trovare una formula per ricollocare i licenziati. Ma il copione del sindacalismo “responsabile” e concertativo non può dirsi completo senza l’appello all’intervento salvifico delle istituzioni. Si va da chi si attende «una grande vicinanza dalle istituzioni» e che agita come trofeo la «disponibilità» del sindaco di Saluggia a tenere un consiglio comunale aperto sul tema a chi dichiara di volere coinvolgere il prefetto.
È evidente che questo comportamento sfacciato e impudente dell’azienda, questa sua tracotante durezza, hanno trovato la strada spianata da anni e anni di assenza di lotta da parte dei lavoratori, di assenza di quella preziosa e insostituibile scuola di formazione della classe operaia e della sua coscienza data dalla sua mobilitazione non estemporanea e intensa. È altrettanto evidente che i “rappresentanti” sindacali, che ingolfano oggi le pagine della stampa locale e i servizi televisivi con le loro rituali proclamazioni di arrendevolezza e di sudditanza al capitale e ai suoi poteri, sono parte dell’indebolimento della classe non di un suo percorso di recupero di forza e consapevolezza.
La classe operaia non ha santi in paradiso, questa è la lezione che per l’ennesima volta si conferma amaramente. Solo nella propria forza autonoma può trovare un punto di appoggio sicuro, una possibilità reale di fare fronte alle scelte e ai piani che il padronato persegue sulla pelle dei lavoratori. Lavoratrici e lavoratori che hanno speso il meglio delle loro energie, la massima parte della loro vita in uno stabilimento non possono essere scaricati come scarpe vecchie quando conviene ai padroni. Il diritto di proprietà dei mezzi di produzione non deve avere la meglio sulle vite di quegli uomini e donne che quei mezzi di produzione hanno retto, alimentato, fatto rendere con la loro vita. Da qui e solo da qui si deve partire. La sconfitta, va detto onestamente, non può assolutamente essere esclusa, dati i rapporti di forza generali tra capitale e lavoro. Ma dalle sconfitte, per quanto concretamente dolorose, si può imparare. Possono diventare parte di un percorso di crescita, esperienza per vittorie future. Dalle scelte del padronato, accettate supinamente o mediate dal sindacalismo asservito, non può derivare nulla, se non la riaffermazione di quella negazione dell’umanità, della dignità dei lavoratori, che l’azienda ha già esibito con i licenziamenti. Solo nella lotta la classe operaia può acquisire quella dignità che il capitale le nega sistematicamente. Il resto è illusione prima e dramma poi, senza nemmeno il futuro possibile di una via d’uscita. Se lotta, il lavoratore può perdere, se non lotta non mantiene nemmeno la sua umanità. Rimarrà merce oggi ed esubero domani.
Corrispondenza da Vercelli