L’estate è trascorsa tra vertici europei e tira e molla fra Banche centrali, governi nazionali, istituzioni comunitarie. Le notizie di un giorno vengono smentite il giorno dopo quando non il giorno stesso. Il Fondo di stabilità europeo ha sufficienti mezzi per impedire lo sfascio della moneta unica? La BCE potrà assumersi una parte del debito italiano, spagnolo o greco? Si faranno i Bond europei? “Sì”, “forse”, “no”, “neanche a parlarne”. I notiziari tentano di rincorrere le varie evoluzioni del dibattito e delle manovre fra banchieri, ministri, commissari e grandi funzionari della burocrazia comunitaria. La stessa recente decisione della Corte costituzionale tedesca sul fondo “Salva-stati” è stata interpretata in modi diversi e spesso opposti.
Dietro la terminologia complicata delle varie proposte e controproposte economiche, risalta la contrapposizione degli interessi fra le varie potenze e fra i vari settori del gran capitale. La speculazione ingrassa mentre Monti non fa che ripetere che l’Italia “è tornata ad essere rispettata in Europa”.
Ma è proprio in Italia che la crisi colpisce con particolare durezza. Tutti gli analisti prevedono un altro anno almeno di recessione. Soprattutto, chiudono centinaia di imprese portandosi dietro il destino di decine di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie. Presso il Ministero dello Sviluppo economico, a luglio c’erano 130 vertenze aperte, “tavoli di crisi aziendale”, come si dice, corrispondenti a circa 163mila lavoratori. Cifra rettificata in agosto dalla Cgil, che parla di 150 aziende in crisi e 180mila lavoratori.
Una riflessione su che cosa fare deve partire dalle necessità oggettive che la crisi pone. In primo piano, per quanto imprenditori, banchieri e professori di economia vogliano attirare altrove la nostra attenzione, c’è la pura e semplice sopravvivenza. In generale c’è il problema di impedire che la condizione di vita della maggior parte della popolazione scivoli verso quella dei paesi del terzo mondo. Bisogna partire da questo e saltare a piè pari le tante chiacchiere che, con l’avvicinarsi delle elezioni politiche, i partiti somministreranno alla popolazione.
I bisogni più urgenti sono: la garanzia di un reddito dignitoso e la stabilità del posto di lavoro. Queste sono anche le basi minime perché i giovani di oggi non siano un esercito di poveri vecchi disperati domani.
Nelle circostanze economiche attuali sarebbe folle aspettarsi che queste due necessità elementari possano essere garantite dall’azione spontanea dei fattori economici. Le ruote del meccanismo economico capitalistico ruotano in un senso solo: quello del massimo profitto. Su questo profitto prosperano non solo i capitalisti veri e propri ma tutta una serie di figure sociali parassitarie. Fra queste ci sono certamente i politici di professione, i grandi manager e quei professori e quei giornalisti che ci tormentano quotidianamente con le loro prediche televisive sulla inevitabilità dei sacrifici, che loro non fanno. Questa sorta di partito del profitto è e sarà sempre disposto a costringere la classe operaia alle condizioni più barbariche di lavoro e di esistenza pur di mantenere intatti i propri privilegi.
Questo meccanismo deve essere bloccato. Bisogna anzi imprimere alle ruote dell’economia un movimento inverso.
In altre parole, bisogna che si crei un rapporto di forze diverso fra capitale e lavoro. Come? Con una seria mobilitazione generale della classe lavoratrice su una piattaforma di pochi fondamentali rivendicazioni, come sono, appunto, quelle del salario garantito e del divieto dei licenziamenti per legge.
Bisogna superare gli steccati aziendali e quelli di campanile. Bisogna capire che non si tratta di “salvare la propria azienda”, l’Alcoa, l’Ilva, la Lucchini o la Fincantieri: si tratta ormai di salvare la classe lavoratrice, tutta la classe lavoratrice, dalla miseria. I lavoratori sono il vero motore dell’economia. La loro forza potenziale è enorme. Bisogna che questa forza arrivi a farsi sentire, superando, nelle forme di lotta, i gesti eclatanti e spettacolari, quasi sempre maturati in un clima di disperazione, di autocommiserazione, di autolesionismo.
Gli operai in lotta non devono suscitare compassione, devono incutere timore. Più che il cuore dell’opinione pubblica, devono colpire i portafogli delle classi privilegiate.