Non rassegniamoci a quei 15 milioni di poveri

E’ uscito a fine maggio il rapporto ISTAT sullo stato del Paese, aggiornato al 2010. Con toni da coro di prefiche, praticamente tutti i giornali elevano lamentazioni sull’aumento della povertà e della disoccupazione, sui giovani che non studiano e non lavorano, sulle donne che hanno perso il lavoro e si fanno carico dello stato sociale. Nessuno che suggerisca di andare a prendere la ricchezza dov’è.

Che la crisi non accenni a diminuire per chi vive solo del suo lavoro, è una realtà che non avrebbe bisogno di conferme. In questo caso, comunque, le conferme non mancano. I dati dell’ultimo rapporto dell’Istituto nazionale di statistica hanno riempito giornali e televisioni solo per un paio di giorni, tra una sparata e una smargiassata dei candidati sindaci al ballottaggio e dei loro sponsor politici, ma hanno fatto in tempo a gettare una luce sinistra sul contrasto stridente tra il mondo virtuale di chi vive di promesse elettorali, e la realtà di chi è costretto a guadagnarsi la sopravvivenza ogni giorno.

Come era facilmente immaginabile, la situazione non migliora rispetto agli anni precedenti. Anzi, se vogliamo prendere in esame un dato ambiguo come quello del prodotto interno lordo, in Italia è ancora inferiore di 5,1 punti rispetto al primo trimestre 2008, mentre ad esempio in Germania il recupero è gia avvenuto, e nel resto della Ue rimangono da colmare mediamente 2,1 punti percentuali. Un dato di questo genere ci interessa sostanzialmente per un fatto: che lo scarto sono chiamati a pagarlo i lavoratori.

Nel 2010 prosegue la diminuzione degli occupati, con un crollo vertiginoso di 532.000 unità, di cui più della metà al Sud. Ma la disoccupazione morde particolarmente tra i 18 e i 29 anni, con la diminuzione di 182.000 occupati, dopo quella già consolidata di 300.000 unità nel 2009. Il calo di occupazione si è concentrato nell’occupazione permanente a tempo pieno (- 1,7%, pari a –297.000 unità), mentre nel 2009 era generalizzata a tutte le condizioni lavorative; si perde per tre quarti l’occupazione nell’industria in senso stretto, si perde l’occupazione stabile, che permette di fare programmi e di guardare al futuro.

Non a caso, il 24,7% della popolazione italiana, cioè quasi il 25%, è a rischio povertà – dove per povertà si intende dover spendere il 65-70% del reddito totale a disposizione per i prodotti di prima necessità - un dato che si interpreta ancora meglio se si paragona al 20% della Germania e al 18,4% della Francia. Le famiglie hanno visto diminuire il loro potere d’acquisto di un ulteriore 0,6%, dopo il 3,1% del 2009, e annaspano tra il risparmio ai livelli minimi degli ultimi vent’anni e la necessità di erodere le economie fatte in precedenza. Nel 2010 il 5,5% degli italiani ha dichiarato di non aver avuto i soldi per comprare il cibo, l’11% ha dovuto rinunciare a comprare le medicine, il 17% ha diminuito le spese per l’abbigliamento, il 16% ha intaccato i risparmi o si è indebitato per arrivare alla fine del mese.

Si aggirano tra le macerie i protagonisti involontari del disastro, in primo piano i giovani e le donne. La generazione tra i 20 e i 35 anni è diminuita come numero, ma i redditi medi di lavoro di questa fascia sono molto più bassi rispetto a 20, ma anche a 10 anni fa. Peggiora anche la qualità del lavoro delle donne, per le quali scende la possibilità di occupazione qualificata, e la cui disparità salariale rispetto ai colleghi uomini è del 20%. Sono le categorie più a rischio povertà, e anche quelle più esposte alla rinuncia di ogni ricerca: secondo l’Istat, sarebbero circa 3 milioni le persone che un lavoro non lo cercano neanche più. Quando lo trovano, magari è lavoro nero: più di un lavoratore su dieci non sarebbe in regola con il contratto – e non si stenta a crederlo – con picchi del 24,5% in agricoltura, del 18,7% nel commercio, alberghi e pubblici esercizi.

Tutta la stampa borghese, in generale, piange le lacrime del coccodrillo sulla gravità della situazione, ma quando si pone – se mai le lo pone – il problema della soluzione, non fa che ripetere la ricetta suggerita da banche e Confindustria: i salari possono crescere solo se si aumenta la produttività, bisogna andare in pensione più tardi e prendere di meno (per questo ci sarà la previdenza privata, alla quale invitano caldamente a ricorrere – non si sa con quali soldi), la precarietà è un’esigenza del sistema che nessuno si sogna di mettere in dubbio, i crediti delle Banche vanno ad ogni costo garantiti, i profitti sono un dogma sacro e intoccabile, che – a differenza dei salari – non è in discussione. Anzi, nella crisi che strangola la classe operaia c’è chi vede un’opportunità per stringere di più il cappio.

In uno studio della Fondazione Nordest, per conto della Piccola Industria di Confindustria, si afferma che dopo la crisi “i dipendenti pensano da imprenditori” (La Stampa, 26.5.11), cioè sarebbero presi da un desiderio di emulazione, sarebbero “imprenditivi” appunto: diffidenti nei confronti delle organizzazioni sindacali, scettici sulle azioni collettive, inclini a rapportarsi individualmente con il datore di lavoro, ansiosi di collaborare a farsi sfruttare meglio. Secondo questo studio, il 63,7% dei lavoratori intervistati sarebbe disposto a forme di flessibilità, il 61,9% disposto alla flessibilità in turni e orari di lavoro, il 63,5% a scambiare questa flessibilità con salari più alti, il 57,5% a rendere il reddito variabile secondo i risultati dell’azienda, il 62,8% a cambiare mansioni e compiti. Puntando il coltello alla gola dei lavoratori, Confindustria si rallegra di come diventino mansueti.

Per difendere le proprie condizioni e la loro stessa vita, i lavoratori hanno l’assoluta necessità di riprendere in mano le redini dell’azione collettiva, di distinguere chiaramente quali sono i propri interessi, quali quelli del padrone, di capire come le idee dominanti, che sembrano ovvie e incontrovertibili, sono solo il frutto dei rapporti di forza a favore dei padroni. Per i lavoratori non serve più flessibilità, serve abolire la precarietà; serve vietare i licenziamenti, e se il lavoro non è sufficiente per tutti, imporre la divisione del lavoro tra tutti i lavoratori a parità di salario; serve adeguare il salario al costo della vita. Bisogna ricordarsi di parlare la nostra lingua, non la lingua del padrone.