Con un'inflazione che viaggia ormai verso l'8% (7,9% a luglio) e salari inchiodati, sembra tramontare verso un futuro indistinto il dibattito sul salario minimo vitale, senza peraltro che la classe operaia abbia finora fatto sentire la propria voce. Nel frattempo, la fondazione Di Vittorio, organo della Cgil, riflette sui disastri prodotti. La Confindustria se la prende con il reddito di cittadinanza, che fa concorrenza ai salari.
Ormai offuscato dalle nuove emergenze, sembra già dimenticato il dibattito, scarso comunque, suscitato a inizio estate dalla notizia apparsa sui quotidiani, ma elaborata su dati Eurostat, che dava i salari italiani unici in Europa a essere diminuiti, anziché aumentati negli ultimi trent'anni. Questo capolavoro sembra essere stato compiuto con la fattiva collaborazione di uno dei sindacati più forti d'Europa, almeno quanto a numero di iscritti; quanto alla sua forza effettiva, i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ovviamente la dinamica salariale risente di innumerevoli fattori, non della sola forza contrattuale espressa dalle rivendicazioni sindacali, ma dopo che gli stessi sindacati hanno rivendicato da anni le giuste scelte che hanno affossato la scala mobile, ormai tondi tondi trent'anni fa, qualche dubbio legittimamente sorge.
Comunque, il range degli incrementi salariali in Europa dal 1990 a oggi va dal 276,00% in più registrato in Lituania, e cifre analogamente alte nei Paesi dell'Est europeo, come la Repubblica Ceca (+112,40%) o la Polonia (+96,5%), ad aumenti molto più contenuti ma consistenti, come l'85,50% dell'Irlanda o della Svezia (+63,00%), alle cifre più moderate di Germania (+33,70%), Francia (+31,10%) e perfino Portogallo (+13,70%) e Spagna (+6,20%). E in Italia? In Italia, appunto, aumenti non ce ne sono stati. Anzi, stando alle statistiche sopra riportate, i salari italiani sono diminuiti del 2,9% (Il Fatto Quotidiano, 1.6.22): questo dato senza contare gli ultimi sviluppi, perché si può fare la fotografia di un certo periodo, ma non prevedere quello che succede. Sicuramente negli ultimi mesi gli eventi hanno subito un'accelerazione che non depone a favore della dinamica salariale, con l'aumento repentino del costo di gas ed elettricità e la botta d'inflazione già iniziata prima della guerra in Ucraina e aggravatasi in seguito. Periodi di elevata inflazione in Italia ne abbiamo avuti, ma oggi i salari possono precipitare - come in effetti continuano a precipitare - senza la rete della scala mobile.
Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, ci spiega però che il dato dei salari diminuiti in trent'anni va riparametrato:"Da noi è troppo alta la quota di professioni non qualificata, di lavoro a termine, di part-time involontari caratterizzati da vuoti di attività e orario ridotto. Questo incide moltissimo sull'andamento della media salariale come nel caso dei 5,2 milioni di lavoratori dipendenti che dichiarano meno di 10 mila euro annui. Se nessun dipendente ricevesse un salario annuo inferiore a questa cifra, si otterrebbe immediatamente un recupero significativo rispetto alle medie salariali di altri Paesi, dimezzando quasi la distanza con il dato medio dell'Eurozona". (La Repubblica, 1.6.22) Ma certo...Come non averci pensato! Fatto sta che - per un destino cinico e baro? - il problema è proprio questo: che il lavoro è precario, nero, grigio, demansionato, sottopagato, etc. Infatti, come ha dichiarato lo stesso Carlo Bonomi , presidente di Confindustria, all'assemblea di Assolombarda di fine maggio a Milano, il reddito di cittadinanza "è diventato il vero competitor per i tanti giovani che contattiamo per offrirgli un lavoro" (Il Manifesto, 31.5.22). Un competitor da 550 euro medi al mese! E' tutto dire.