Nel braccio di ferro tra Mordashov e le Banche rischiano di rimanere schiacciati gli oltre 3000 lavoratori che, tra fabbrica e indotto, sono legati alla produzione siderurgica degli stabilimenti di Piombino. A rischio il ciclo integrale dell’acciaio e un migliaio di posti di lavoro.
Per mesi si è trascinata la trattativa tra Banche e Gruppo Lucchini per la ristrutturazione del debito contratto dalla proprietà; già a giugno 2010 una delle Banche creditrici, la francese Paribas, aveva inviato al Gruppo un avviso di default, ma a contendersi le spoglie di uno dei due poli italiani per la produzione integrale dell’acciaio ci sono anche Unicredit, Intesa San Paolo, Monte dei Paschi di Siena e altre, nei confronti delle quali il Gruppo è più o meno esposto, per un totale di 15 Istituti. Non molto sono riusciti a capire né i lavoratori, né la popolazione del comprensorio piombinese, e neanche gli Amministratori degli Enti locali coinvolti, e soprattutto non molto hanno fatto o potuto fare per intervenire nell’intera vicenda.
Nei successivi passaggi di proprietà, che hanno coinvolto lo stabilimento dopo la privatizzazione del 1993 e la cessione al gruppo bresciano Lucchini, abbiamo assistito ai passaggi più ambigui, o almeno tali per chi non è abituato a frequentare mercati azionari e potentati finanziari. Dopo il passaggio da Lucchini a Severstal del 2005, non ci sono stati anni facili. Nel 2008 la Lucchini, di cui Severstal deteneva l’80% del capitale, aveva garantito il 15% di utili al gruppo russo, ma nei primi nove mesi del 2009 gli utili della società erano scesi a 1,2 miliardi di dollari rispetto ai 3,3 dello stesso periodo del 2008. Anche la casa madre Severstal ha risentito pesantemente della crisi, accumulando – pare! – perdite e calo di fatturato record. A gennaio 2010 il magnate russo Mordashov, alla guida del Gruppo, aveva dichiarato "I primi sei mesi del 2009 sono stati il periodo più difficile degli ultimi vent’anni per Severstal e per tutta la siderurgia", confermando poi la considerazione con l’annuncio che non si prevedevano dividendi anticipati, e men che meno dividendi per il 2009. A maggio 2010 il Sole 24 Ore pubblicava la notizia della svalutazione di Lucchini, messa in atto da Severstal in vista di una sua prossima cessione: a conclusione dell’operazione, Lucchini ha una perdita di Bilancio di 855 milioni. A febbraio 2010, la famiglia Lucchini si accorda con Severstal per la cessione della sua quota, intorno al 20%, per una cifra – pare – intorno ai 100 milioni di euro. A luglio 2010, quel poco che si sa è che il colosso russo, dopo avere riconsiderato la sua strategia produttiva in Europa, etc. etc., e il bilancio allarmante di Lucchini, vende la sua quota di proprietà a …. se stesso, cioè a una società di Mordashov, per la cifra simbolica di 1 euro. A noi che non capiamo di finanza, tutto ciò risulta oscuro. Fatto sta che a questo punto si procede a contrattare con le banche per la ristrutturazione del debito, cioè in pratica ci si mette d’accordo con le banche per evitare che queste reclamino le loro spettanze, facendo precipitare la proprietà nell’insolvenza. Alla fine dei giochi – le ultime notizie sono dei primi di febbraio - le Banche sono rimaste creditrici, il debito (calcolato alla fine dei conti in 700 milioni di euro) al momento non viene pagato, ma la Lucchini in sostanza diventa di loro proprietà, con Mordashov come azionista di riferimento.
Per i termini più precisi della questione ci vorrà ancora qualche mese, ma la sostanza della faccenda è abbastanza comprensibile fin da ora: il proprietario non è un industriale, è un fondo finanziario le cui intenzioni non si conoscono. Lo stabilimento di Piombino lavora al 65% delle sue capacità produttive, e soprattutto nessuno parla di investimenti che assicurino non tanto uno sviluppo, quanto semplicemente il mantenimento dell’esistente; l’ipotesi che le banche si pongano principalmente l’obiettivo di coprire il debito, e non di dare un futuro industriale allo stabilimento, è molto realistica. Che l’altoforno sia quasi giunto alla fine del suo ciclo fisiologico, e quindi vada inevitabilmente rifatto, da anni non è un mistero per nessuno. Ma non ci sono risposte ai dubbi, e se ci sono non sono rassicuranti. Al momento, solo lo stabilimento di Piombino e l’Ilva di Taranto sono in grado di gestire in Italia il ciclo integrale dell’acciaio, partendo cioè dalla fusione del minerale di ferro nell’altoforno, fino alla produzione dell’acciaio semi-lavorato e del prodotto finito, come le rotaie, che è uno dei prodotti di punta dello stabilimento di Piombino. Fra un anno e mezzo, le Banche dovrebbero incassare i loro crediti con Mordashov, quando il magnate avrà venduto le centrali francesi Ascometal, e a quel punto la sorte della fabbrica potrebbe arrivare a un bivio decisivo: invece dei soldi per il rifacimento dell’altoforno, potrebbe arrivare la vendita a pezzi di ogni singola parte dello stabilimento, e la trasformazione in un’acciaieria "minore", senza altoforno, cokeria, preparazione minerale e treni rotaie. Gli effetti per i lavoratori sarebbero devastanti, con almeno un migliaio di esuberi.
Di fronte a questa prospettiva, al momento la sensazione è di un’incertezza totale. Sembra difficile non solo organizzare una reazione, ma anche solo realizzare che il rischio è grave e concreto. Vivere alla giornata non aiuterà ad affrontare il futuro o a risolvere la situazione, e non sarà rimanendo con le mani in mano che si prepareranno i lavoratori a sostenere un confronto almeno tanto duro quanto quello che caratterizzò la privatizzazione e la ristrutturazione dell’azienda nel 1993. La prossima scadenza è un convegno organizzato per il 21 marzo, dove le RSU della fabbrica, che si sono riunite a fine febbraio per valutare la situazione, e i sindacati Fim Fiom Uilm contano di discutere con i rappresentanti delle Istituzioni una posizione rivendicativa unica. Sarebbe urgente anche discutere con gli operai come e quanto sono disposti a mobilitarsi e a lottare per far sentire forte la loro voce, per imporre le loro condizioni oltre a quelle delle banche, degli speculatori e degli industriali. Certo si può insistere e incalzare Comuni, Province, Regioni, Governo, etc. Ma non basterà.