Napoli sommersa dai rifiuti esplode la rabbia popolare

«In dieci giorni ripuliremo Napoli!». Non è la formula magica di un mago, ma la promessa fatta da Berlusconi il 22 ottobre dello scorso anno di fronte alle montagne di spazzatura che da mesi ammorbavano la città partenopea e la sua provincia. Promessa da marinaio, come quella del 28 agosto del 2008 («A chi mi chiede se a Napoli tornerà ancora l’emergenza rifiuti io dico: no. Non si tornerà alla situazione precedente»). L’ultima è del 29 dicembre 2010 («Entro il 31 dicembre verranno eliminati i rifiuti dalle strade della città, entro 5 giorni dalle strade della provincia»).

In verità, più che di emergenza rifiuti si dovrebbe parlare di disastro ambientale permanente, così grave da portare, lo scorso autunno, alla rivolta degli abitanti di Terzigno contro la decisione del governo di creare una nuova discarica nella cava Vitiello, nel bel mezzo del Parco nazionale del Vesuvio e vicinissima a quella già esistente di Cava Sari. Terzigno fu teatro in quei mesi di una veemente ribellione che vide in prima fila le cosiddette “mamme vulcaniche” seguite da tutta la popolazione, stanca di sopportare le esalazioni nocive e maleodoranti del percolato rilasciato dai rifiuti accumulati per anni nella Cava Sari in disprezzo delle più elementari norme di sicurezza ambientale. A fine ottobre, Berlusconi e il suo fido Bertolaso, allora commissario per la Protezione civile, proposero ai sindaci dei comuni del parco del Vesuvio un documento nel quale si prometteva un decreto per la non apertura della discarica di Cava Vitiello e di sospendere i conferimenti dei rifiuti in quella di Cava Sari in attesa delle analisi sull’acqua di falda e sull’aria al fine di procedere alla bonifica della discarica e del territorio circostante. Il documento fu accettato dai sindaci allettati dall’offerta di compensazioni in cambio del mantenimento in attività della discarica, e per questo duramente contestati dai comitati promotori della protesta che volevano l’immediata chiusura di Cava Sari. Il decreto che sospendeva l’apertura di Cava Vitiello venne effettivamente emanato il mese dopo, ma della bonifica di Cava Sari non vi è a tutt’oggi nessuna traccia sebbene i prelievi effettuati in novembre rilevassero una profonda contaminazione della falda acquifera. Tutto nello stile del “nostro” presidente-marinaio che promette e non mantiene.

Chi può ancora credere che la bonifica verrà eseguita e che l’apertura della nuova discarica sia definitivamente scongiurata? Di certo c’è che il percolato continua ad inquinare i terreni e le colture, e che l’aria resta fetida e portatrice di gravi malattie respiratorie.

Se a Terzigno si piange, a Napoli non si ride. Dall’emergenza dell’autunno-inverno del 2010 si è passati a quella della primavera di quest’anno. Dal “Capodanno pulito” di Berlusconi si è passati alla “Pasqua pulita” della Jervolino, sindaco di Napoli, con identici risultati. Nemmeno le imminenti elezioni amministrative hanno spinto i poteri locali ad intervenire per ripulire la città. Durante la precedente emergenza vi fu un patetico e ipocrita balletto istituzionale. Il governo nazionale sosteneva che il problema rifiuti era di competenza del comune partenopeo, il quale a sua volta accusava il governo di non farsi carico di un’emergenza che avrebbe avuto ripercussioni a livello nazionale. La regione campana, infine, dava la colpa alle province, ree di non accettare i rifiuti di Napoli e di non volere nuove discariche e inceneritori nei propri territori. La danza si concludeva con un appello del governo, a tutte le regioni affinché dessero un segnale di solidarietà accogliendo in via transitoria la spazzatura napoletana.

Appello respinto al mittente, con qualche eccezione come la Puglia e la Toscana, per l’amnesia di chi per decenni ha usato la Campania come discarica a basso costo dei rifiuti, compresi quelli tossici, provenienti dalle industrie del Settentrione. Rifiuti che prosperavano di pari passo ai profitti delle imprese del Nord e della camorra del Sud, i cui interessi sono da sempre indissolubilmente intrecciati.

In aprile i cumuli di rifiuti nelle vie di Napoli raggiungevano le 2000 tonnellate, il lezzo si diffondeva sempre di più e, con i primi caldi, penetrava sin dentro le abitazioni. L’apparente rassegnazione dei napoletani lasciava ben presto il posto alla rabbia. I primi ad inscenare veementi proteste sono stati i commercianti del centro, subito imitati dagli abitanti dei quartieri popolari come Forcella, Fuorigrotta e Soccavo. Cassonetti rovesciati in strada a guisa di barricata con l’inevitabile blocco del traffico in via Colletta e in via Cinthia, donne del popolare rione Traiano che salivano sui tetti delle case minacciando di darsi fuoco. Il prefetto si è precipitato ad istituire un Comitato per l’ordine pubblico al fine di evitare la generalizzazione delle proteste, che però sono continuate estendendosi ai comuni suburbani. Il 4 maggio, nell’area flegrea, centinaia di abitanti del rione Toiano rovesciavano in strada i raccoglitori di rifiuti e la tangenziale veniva bloccata all’altezza degli svincoli di uscita di Cuma e di Arco Felice.

Ancora una volta c’è stato un avvilente scarica-barile istituzionale. La regione accusava il comune partenopeo di non voler fare la raccolta differenziata, il comune dava la colpa alla regione di non trovare nuovi siti per lo sversamento dei rifiuti napoletani.

E’ insopportabile vedere una città meravigliosa come Napoli morire sotto montagne di immondizia, il lungomare di Pozzuoli costeggiato da chilometri di cumuli di spazzatura. Ancor più inaccettabile è l’indifferenza delle istituzioni di fronte all’agonia della città, istituzioni che si sono mostrate sensibili solo agli interessi “leciti” e illeciti del potere economico, che storicamente trae linfa dal sottosviluppo cronico del Meridione condannandolo al degrado economico, sociale ed ambientale.

Ci ha pensato Berlusconi a rompere il silenzio delle istituzioni locali promettendo di ripulire la città in pochi giorni con l’invio dell’esercito, come fece nelle emergenze del 2008 e dell’anno scorso con i risultati che sappiamo. Questa volta, i “soldati-spazzini” dove avrebbero sversato i rifiuti? All’interno delle caserme? Il capo del governo sapeva benissimo che la discarica di Chiaiano, l’unica che poteva accogliere la spazzatura di Napoli, col contagocce e solo fino a giugno, era stata parzialmente posta sotto sequestro dalla magistratura. Un provvedimento resosi necessario per svolgere indagini sull’inquinamento delle falde acquifere, causato verosimilmente da materiale proveniente da cave abusive gestite dalla camorra. Per non parlare dell'inceneritore di Acerra, solennemente inaugurato da Berlusconi nel marzo del 2009, che non ha mai funzionato a pieno regime. L'impianto, costruito per bruciare solo rifiuti trattati e secchi, è stato usato per smaltire le tonnellate di immondizia indifferenziata di Napoli e provincia al collasso per le continue emergenze. Il suo già alto potere inquinante è così cresciuto enormemente. Temperature altissime e rivestimenti che si staccavano dalle pareti hanno causato frequenti interruzioni per i necessari lavori di risanamento. Altro che “manutenzione programmata” come sostenne Bertolaso lo scorso anno!

Ma Berlusconi non è uomo da fermarsi di fronte a questi “piccoli” ostacoli e, con la solita sicumera, prometteva che avrebbe fatto sparire la monnezza entro il 13 maggio, quando sarebbe stato a Napoli per sostenere il candidato sindaco per il Pdl, e la sua lista zeppa di fascisti e di inquisiti. Magari facendo accantonare i rifiuti in qualche discarica della camorra! Macché, anche questa volta promessa non mantenuta. I cumuli di rifiuti sono rimasti dov'erano, alti e puzzolenti. La colpa? Il cavaliere non ha esitato ad attribuirla ai suoi nemici giurati che complottano ogni giorno contro di lui: i soliti magistrati comunisti che questa volta avevano sequestrato la discarica di Chiaiano per disturbare la sua campagna elettorale.

La rabbia della popolazione, purtroppo, non è stata raccolta nemmeno dalle organizzazioni sindacali, compresa la Cgil, che avrebbe potuto offrire le sue camere del lavoro come sedi per organizzare la protesta dei comitati spontanei che via via si stanno formando. Il 1° maggio poteva diventare un momento importante per unificare quella protesta con la lotta dei lavoratori di tante aziende in crisi, come la Tirrenia e la Fincantieri. Ma le direzioni sindacali hanno preferito un concerto musicale al tradizionale corteo col pretesto delle divisioni esistenti tra Cgil, Cisl e Uil. Come al solito si è anteposta la ricerca dell’unità degli apparati a quella dei lavoratori.

Con l’avvicinarsi dell’estate aumenta il caldo insieme al rischio di epidemie e alla rabbia dei napoletani che potrebbe, con ogni probabilità, sfociare in nuove e più eclatanti proteste.

Corrispondenza da Napoli