Una condizione di precarietà passiva. Questa in due parole la situazione alla Lucchini di Piombino. L’incertezza, e insieme la vaga speranza che alla fine tutto si risolva, sembra lo stato d’animo dominante dei lavoratori della fabbrica.
Non è la prima crisi dell’acciaieria piombinese, ma la situazione non è più quella degli anni ’80, quando si affacciò per la prima volta la cassa integrazione e poi la serie infinita dei prepensionamenti, e nemmeno quella del ’93, quando lo stabilimento di proprietà pubblica venne ceduto a Lucchini. Il problema, anzi i problemi annosi ormai sono la situazione debitoria del Gruppo, in perdita vertiginosa e ormai commissariato da tempo, e lo stato dell’altoforno, arrivato alla fine della sua vita produttiva senza molte prospettive che ne vedano il rifacimento. I nodi sono questi, e intorno a questi ruota un’altalena di notizie e di tensioni continue, intervallate dalla speranza di compratori disposti a nuovi investimenti, o di opportunità salvifiche tipo lo smantellamento della Concordia nel porto di Piombino (peraltro tutt’altro che sicuro), o la sinergia con lo stabilimento di Taranto per la produzione di acciaio a bramme.
A giugno il commissario straordinario aveva assicurato la volontà di procedere alla vendita in blocco, ma aveva chiesto una proroga di due mesi per la presentazione del piano industriale. Nel frattempo erano partite una serie di ristrutturazioni in alcuni reparti, con tagli negli organici che avevano provocato un minimo di reazione, con uno sciopero di un’ora.
A fine luglio, prima della pausa estiva, praticamente a un anno esatto dalla manifestazione che si era tenuta nello stesso periodo del 2012, i sindacati hanno indetto uno sciopero di 3 ore con manifestazione. Un anno non è trascorso invano, e la partecipazione non è stata la stessa. Se l’anno scorso c’era stata anche una partecipazione notevole della popolazione, oltre a una folta partecipazione operaia, quest’anno la reazione cittadina è parsa abbastanza tiepida. I criteri organizzativi stabiliti dalle organizzazioni sindacali non hanno aiutato: il corteo si è snodato praticamente fuori città, sulla strada per il porto, ma non sul viale principale, evitando accuratamente di intralciare il traffico dei veicoli. Praticamente si è svolto come una solitaria marcia nel deserto, in strade secondarie che nessuno frequenta, senza traffico né negozi né gente. Anche il blocco delle navi al porto è risultato pressoché inesistente, con la semplice esposizione simbolica di uno striscione per pochi minuti, e un bagno nelle acque portuali di tre operai, subito interrotto dalle autorità. Sulla manifestazione sembrava aleggiare un senso diffuso di incertezza e anche una certa sfiducia, la scarsa convinzione di riuscire a modificare con le proprie forze un percorso che sembra affidato alla volontà del commissario straordinario e del Governo, oltre a quella di eventuali compratori.
La realtà è che, se il ministro Zanonato a inizio agosto aveva aperto alla produzione integrata con Taranto, il commissario straordinario di recente ha dichiarato: “Nessuna integrazione verticale tra l’Ilva e la Lucchini, ma solo temporanea e se il mercato riparte. In questo caso si può pensare a Piombino, in una funzione di supporto a Taranto”. A novembre c’è il rischio, ormai ben più che ipotetico, che l’altoforno si fermi, e i costi di riattivazione, secondo lo stesso Nardi, sarebbero troppo alti. Al momento in cui scriviamo il piano industriale, già rimandato a giugno, non è ancora stato presentato, ma presumibilmente dovrebbe prevedere il forno elettrico al posto dell’altoforno, e quindi uno stabilimento ridimensionato rispetto all’attuale e la perdita di un migliaio di posti di lavoro. Probabile che a ciò seguiranno altre promesse, tipo ampliamento del porto, nuove tecnologie collegate al funzionamento degli impianti con tecnologie Corex, etc. etc. Così Nardi garantirebbe: “Non sembra impossibile prevedere al termine del processo di 3-5 anni nuova occupazione per 1000-1500 unità”.
Ma i lavoratori non possono aspettare 5 anni un esito improbabile. I lavoratori non dovrebbero fidarsi di chi sceglie sulla loro pelle. Se non è nelle loro mani la decisione sul futuro dello stabilimento, lo è almeno la capacità di difendere il proprio futuro e quello delle proprie famiglie. Se si vuol ristrutturare, non lo si può fare sulle loro spalle, senza pagare alcun prezzo. I lavoratori dovrebbero almeno vendere cara la pelle!