Ma in autunno ci vorrà una lotta d’insieme per far pagare davvero ai padroni la loro crisi
Se è vero il detto il buongiorno si vede dal mattino, allora si preannuncia un autunno denso di nuvole. Resta da vedere se la pioggia cadrà sui lavoratori o sui padroni.
Nei mesi estivi è proseguita la chiusura di fabbriche in tutto il paese, mentre i soloni dell’economia nostrani e stranieri facevano a gara nel dichiarare che la crisi economica era ormai prossima al capolinea (vi ricordate le dichiarazioni di costoro preconizzanti uno sviluppo economico inarrestabile ancora pochi mesi prima dello scoppio della crisi?). Tra luglio e agosto di quest’anno la cassa integrazione ordinaria, quasi esaurita, è diventata straordinaria con la conseguente messa in mobilità di migliaia di lavoratori. Sono state le prime avvisaglie di quello che potrà accadere nei mesi a venire: un dilagare di licenziamenti in ogni settore del mondo del lavoro. Ma molti lavoratori non hanno atteso l’autunno per scendere in lotta, spesso seguendo l’esempio degli operai dell’Innse di Milano.
A Pesaro una decina di lavoratori della Cobrim, cooperativa di appalto nei cantieri navali, in agosto sono saliti su due gru reclamando il pagamento dei salari sospeso da due mesi. Dopo qualche ora l’azienda cedeva accettando di pagare gli arretrati (70.000 euro in totale).
Nello stesso mese si sono ripetute azioni di lotta, tutte contrassegnate dal tentativo degli operai di richiamare l’attenzione dei media sulla drammaticità della loro situazione, ma pure ricercando la solidarietà delle altre realtà lavorative e sociali del territorio circostante.
Alla Cnh di Imola, impresa della Fiat che produce macchine movimento terra, il 24 agosto un operaio ha iniziato lo sciopero della fame per ottenere dal ministro dell’economia un tavolo nazionale di trattativa tra Fiat e sindacati al fine di evitare la chiusura della fabbrica. Da due mesi i 435 lavoratori della Cnh imolese presidiano lo stabilimento contro la volontà della Fiat di chiuderlo. La cassa integrazione ordinaria, iniziata nel settembre 2008, oggi si è trasformata in straordinaria per un anno. Il che significa una cosa sola: il licenziamento di tutti i lavoratori nel giro di dodici mesi. Se lo sciopero della fame è terminato (il ministro Scajola ha accettato di convocare le parti), il presidio continua con la stessa determinazione. E ci sono ragioni da vendere nel continuarlo. Quali garanzie può dare a questi lavoratori un governo unicamente sensibile a dare aiuti ad un gruppo come la Fiat il cui a.d. Marchionne solo nel giugno scorso aveva assicurato che la casa del Lingotto non avrebbe chiuso neppure uno stabilimento in Italia?
Intanto la Fiat continua a macinare utili nonostante e grazie alla crisi. In un anno l’azienda ha aumentato i volumi di vendita delle auto del 10,7% come pure la quota di mercato nazionale (+0,6%) toccando il 33,7%. Come ha fatto? Grazie agli incentivi governativi, le chiusure e i ridimensionamenti, la riorganizzazione degli stabilimenti a costo zero per l’azienda. Infatti a pagare sono stati solo gli operai con l’intensificazione dei ritmi, l’aumento dei turni, gli straordinari, la riduzione del premio di produzione da un lato, e la cassa integrazione, i trasferimenti, la precarietà dall’altro.
L’indotto Fiat è quello che paga più pesantemente i costi della crisi. E’ il caso della Lasme di Melfi, fabbrica di componenti per auto Fiat, con sede madre a Chiavari in Liguria. Il 25 agosto i 170 lavoratori si sono riuniti in assemblea permanente decisi ad impedire il trasferimento di tutta la produzione in Liguria. Eppure alla Lasme di Melfi non si è mai verificato un calo produttivo. Da due anni i Pellegri, la famiglia proprietaria dell’azienda, lamentano perdite finanziarie che nulla hanno a che vedere con l’attività produttiva di Melfi. Ora, perché trasferire la produzione di alzacristalli, esclusivamente destinati alle auto Fiat, nella zona di Chiavari dove si producono componenti soltanto per marchi stranieri? La Fiom crede che dietro a questa operazione ci sia la Fiat che vuole in tal modo punire i lavoratori dello stabilimento lucano, da anni tra i più combattivi e i meno propensi a subire i metodi disumani di organizzazione del lavoro imposti dall’azienda. Di sicuro c’è che la Lasme, in pieno agosto e con i lavoratori già in ferie, ha inviato ai sindacati la lettera che annunciava la messa in mobilità di tutto l’organico. Ma i lavoratori, concluse le ferie, si sono presentati regolarmente al lavoro decisi a difenderlo. Quel giorno, sette operai sono saliti sul tetto della fabbrica seguendo l’esempio degli operai della Innse. La richiesta: ritiro della procedura di messa in mobilità. Un’azione che si concludeva tre giorni dopo con l’impegno dell’azienda a sospendere tale procedura fino al 4 settembre, giorno stabilito dal ministro dell’economia per un incontro tra le parti a livello nazionale.
Non solo gli operai delle fabbriche ma anche i lavoratori della scuola hanno voluto emulare la Innse. Sempre in agosto, a Benevento, una ventina di docenti e ausiliari precari sono saliti sul tetto del palazzo che ospita l’Ufficio scolastico provinciale per protestare contro i drastici tagli dei posti di lavoro (500 solo nella provincia di Benevento) decisi dal governo e dalla sua ministra dell’Istruzione Gelmini. I dimostranti hanno steso uno striscione che recitava “Come gli operai della Innse, fino a quando non avremo risposte”.
Gli episodi di lotta descritti, pur nelle differenti modalità, hanno in comune la volontà dei lavoratori di non subire passivamente la politica di padroni e governo volta a far pagare la crisi a chi lavora, coscienti che solo lottando si può difendere il posto di lavoro. Se gli operai decidono forme di lotta un po’ spettacolari e, in alcuni casi, autolesioniste, dove la radicalità della protesta si esprime spesso mediante l’individualità del gesto, non lo fanno per esasperazione ma perché costretti a lotte parziali e isolate. La concertazione sindacale e la politica fallimentare della cosiddetta sinistra radicale e non,ne portano tutta la responsabilità.
In autunno i lavoratori dovranno necessariamente unire le forze in una lotta d’insieme, unico modo per impedire al padronato di fare strage di posti di lavoro per salvaguardare i profitti.
Nel convegno sulla situazione economica svoltosi a Cernobio il 6 settembre, la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia e il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani si sono trovati concordi nel dover essere uniti, industriali e lavoratori, contro la crisi. “Dobbiamo essere tutti responsabili di fronte alla crisi” ha dichiarato la Marcegaglia. “Dobbiamo remare tutti insieme” le ha fatto eco Epifani. Questo tipo di unità sarebbe non solo inutile ai lavoratori, ma addirittura letale. Gli operai devono respingere ai mittenti questa assurda richiesta di assunzione di responsabilità per una crisi di cui essi non hanno alcuna colpa. L’appello di Confindustria ad unire padroni e operai contro la crisi rivela soltanto la paura che le isolate proteste di mezza estate sfocino nell’unità di lotta di tutta la classe lavoratrice.
M.I.