Le preoccupazioni del capitale in Cina

Probabilmente il mondo del lavoro in Cina non ha l’immagine del monolito immobile che a molti fa comodo; scioperi e proteste per le durissime condizioni di lavoro ce ne sono stati, anche se raramente le notizie hanno varcato i confini dell’immenso Paese. Ma oggi qualcosa è cambiato, perché perfino il New York Times ha dovuto occuparsi degli scioperi in Cina.

Ansie e travagli per le industrie straniere (multinazionali, per lo più) che negli ultimi vent’anni hanno approfittato del gigantesco serbatoio di manodopera a basso prezzo per moltiplicare i loro profitti in Cina. Da maggio scorso una lunga serie di scioperi sta paralizzando diversi stabilimenti del Guangdong, il gigantesco distretto industriale cinese nel delta del Fiume delle Perle. Ma forse l’elemento che ha portato allo scoperto le lotte dei lavoratori è stato il blocco della produzione in diverse fabbriche straniere, in primo luogo la Honda, poi anche la Toyota, fermata dallo sciopero dei lavoratori nell’azienda fornitrice Denso, che produce sistemi di iniezione sia per Honda che per Toyota.

Di queste lotte dei lavoratori cinesi, nonostante i mezzi di comunicazione di cui dispone la società odierna, gli operai dell’Occidente purtroppo sanno poco o nulla. Se perfino i lavoratori ottocenteschi sono stati capaci di organizzare scioperi internazionali per la conquista delle 8 ore di lavoro al giorno, con un movimento nato negli Stati Uniti ed esteso poi dall’Australia fino in Europa, oggi il movimento operaio ha dimenticato non solo la capacità di organizzare lotte comuni, ma spesso perfino la conoscenza elementare di chi nel mondo subisce il lavoro in condizioni di sfruttamento simili, e quasi certamente ancora più brutali. Ma non per questo i lavoratori occidentali sono esentati dalle conseguenze che questo sfruttamento estremo produce anche su di loro. Come una tendenza inarrestabile, il capitalismo nostrano si propone di importare le condizioni di lavoro che pratica nelle fabbriche cinesi o nelle fabbriche delocalizzate dell’Est europeo, arrivando a comprimere sempre di più i salari e a dilatare orari e ritmi di lavoro, tentando di estromettere qualsiasi forma di contrattazione e cercando di eludere qualsiasi regola, come sta facendo la Fiat a Pomigliano d’Arco, con il beneplacito praticamente totale dei partiti politici, della stampa e perfino dei sindacati, tranne la Fiom.

Per anni la Cina ha rappresentato un terreno facile per le multinazionali; profitti astronomici si sono realizzati con salari da fame. Un operaio cinese, quasi sempre immigrato dalle zone rurali più povere del Paese, guadagna tra i 107 e i 180 euro al mese, con un regime da schiavo in fabbrica, 42 ore settimanali di lavoro (nel migliore dei casi) e svariate ore di straordinari obbligatori. In più, un regime dittatoriale che soffoca qualsiasi tentativo di ribellione e un sindacato giallo di Stato, la Federazione Pancinese dei Sindacati, che è la cinghia di trasmissione diretta del potere centrale.

Per il proletariato cinese non è stato facile, non lo è nemmeno ora, organizzare delle forme di resistenza; ma la storia del movimento operaio ci insegna che a determinate condizioni è impossibile non reagire, e che in tempi più o meno rapidi la classe operaia ha la capacità di organizzarsi e di trovare forme di lotta adeguate. Quelle che stanno allarmando i media mondiali, e sono rimbalzate sulle pagine dei giornali italiani, partono dallo sciopero imponente di 1.700 operai della fabbrica Honda di Zhongshan, che è la terza fabbrica Honda ad essere colpita da agitazioni sindacali spontanee. Prima di questa ondata di scioperi, sulla stampa era comparsa la drammatica notizia di una catena di suicidi nella Foxconn, la fabbrica di Taiwan che produce componenti per l’iPhone e l’iPad di Apple. Per coprire la realtà di una situazione spinta oltre ogni limite, la Foxconn aveva aumentato i salari del 30%, la Honda ha già concesso aumenti salariali del 24%.

Tutti i giornali sono accomunati da una reazione che mescola assoluto stupore di fronte alla minaccia operaia (c’è chi parla di "impensabile rivoluzione", chi vede tremare "la granitica certezza del potere centrale di poter controllare a piacimento masse imponenti di manodopera" – Il Messaggero, 12.6.10), a un rabbioso timore di veder svanire il bengodi ormai dato per scontato: il Sole 24 Ore dell’11.6.10 parla di "generose gratificazioni" che "rischiano di aprire una nuova stagione nelle politiche salariali in tutto il Guandong": generose gratificazioni, aumenti del 24% su salari da 130 euro! Alberto Vettoretti, presidente della Camera di Commercio Europea nel Guangdong lamenta che "molte imprese sono preoccupate", mentre un industriale dell’arredamento a Dongguan vede svanire l’albero della cuccagna: "Honda e Foxconn hanno finito per calare le braghe concedendo aumenti salariali fuori da ogni logica contrattuale. Con queste premesse, è ragionevole aspettarsi presto altre rivendicazioni selvagge in altre fabbriche della zona". Probabile, in effetti. Chissà perché, per i padroni le uniche logiche contrattuali possibili sono solo quelle a loro favore…

Non sappiamo se questa "primavera cinese" sia solo l’inizio di una presa di coscienza più ampia per il proletariato cinese, ma ci sentiamo comunque, con forza, al fianco di quei lavoratori.

A.M.